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Note di regia

di Marco Tullio Giordana

Quella di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida è la storia di due attori spinti da vanità e smania di protagonismo a compromettersi con avvenimenti più grandi di loro. Il fascismo aveva affidato allo spettacolo un ruolo molto importante: produrre consenso, creare l’immaginario di una “nuova” Italia. Lo sviluppo della cinematografia italiana fu perseguito da Mussolini creando gli studi di Cinecittà e favorendo la capitalizzazione di un industria fino a quel momento sottodimensionata. Bisognava creare anche uno star system. Anche se relegati a ruoli secondari, Valenti e Ferida ne fecero parte a tutti gli effetti. Il sex appeal di Luisa Ferida era troppo esplicito per affidarle il ruolo della protagonista; le toccava sempre il ruolo della donna perduta, della cattiva ragazza. Valenti aveva un fascino troppo mefistofelico per incarnare l’Eroe; gli toccava il ruolo dell’amico dell’Eroe. Oppure dell’antagonista, dell’acerrimo nemico. Malgrado il talento e la popolarità, le carriere di Osvaldo Valenti e di Luisa Ferida rimasero per tutti gli anni ’30 quelle di due caratteristi.

La grande occasione venne dopo l’armistizio del settembre 1943, quando l’Italia si divise in due e il regime dovette trasferirsi al nord, sotto la tutela tedesca. La Repubblica di Salò cercò di ricreare gli studios trasferendo a Venezia quanto era riuscita a portarsi via da Cinecittà. L’appello a tecnici, artisti e maestranze rimase però inascoltato: negli stabilimenti della Giudecca finirono per ritrovarsi solo fascisti irriducibili o personalità mediocri. Valenti non era propriamente un fascista. Troppo anticonformista e anarchico per essere un obbediente servitore, Valenti era piuttosto un dandy. Non si occupava di politica, preferiva la bella vita: donne, automobili,  alberghi lussuosi, gioco d’azzardo. Ma Venezia era l’occasione di accedere ai ruoli che gli erano negati, quelli che Amedeo Nazzari, Massimo Girotti o Gino Cervi gli avevano sempre portato via. Anche la Ferida poteva finalmente interpretare le eroine finora toccate a Isa Miranda, Alida Valli o Assia Noris. In realtà realizzarono solo un paio di pellicole insignificanti e finirono invece travolti nelle convulsioni della guerra civile. Affascinato dal principe Junio Valerio Borghese, comandante della X° Flottiglia MAS, Valenti si arruolò in quella formazione con compiti, diremmo oggi, di testimonial. Anche in questo caso l’esibizionismo, unito a una sorta d’ingenua buona fede, ebbe un ruolo decisivo.

Appare qui uno dei temi portanti di Sanguepazzo: la vanità dell’attore, la sua fragilità di fronte al bisogno di primeggiare, essere riconosciuto. Una specie di bulimica - sempre inappagata – fame d’amore. La ricerca della visibilità e del successo viene prima di ogni cosa, passa davanti a tutto, senza valutare rischi e compromessi. È la moderna trasposizione del mito di Narciso che, innamorato della propria immagine, annega nell’acqua che la specchia. Ma c’è un altro tema ugualmente importante: l’autodistruttività così pervasiva della vita di molti artisti, la loro esuberanza sempre minacciata dalla depressione.

Valenti era cocainomane. Probabilmente per assecondarlo, lo fu anche la Ferida. Questa la ragione che li portò a frequentare Villa Triste, il covo milanese del bandito Koch. Pietro Koch agiva alle dirette dipendenze del comando tedesco, non doveva rispondere alle autorità italiane. Protetto dai nazisti, sicuro dell’impunità, Koch poteva permettersi qualsiasi degenerazione. La diceria (mai smentita, mai veramente provata) che Valenti e la Ferida partecipassero alle torture non nasce solo da quell’ambigua frequentazione. La Ferida e Dusnella Marchi - la giovanissima amante di Koch – si assomigliavano come due gocce d’acqua. Era Dusnella ad animare i sadici festini del suo protettore, a partecipare ai suoi feroci interrogatori. Il conto venne invece presentato alla Ferida.
C’è in questo tema del “doppio”, della “controfigura”, qualcosa di affascinante e al tempo stesso sinistro: l’emulazione del fan, la sua mitomania, finisce per ritorcersi contro la celebrità che l’ha sedotto. Luisa viene punita non per quel che ha direttamente commesso ma per quel che le viene attribuito, grazie all’emulazione di qualcuno che vuole essere come lei. Anche questo dovrebbe farci riflettere sul valore che diamo a concetti come “mito”, “successo”, “fama”, “celebrità”.

In Sanguepazzo è fondamentale il mito del cinema, quello che Pier Paolo Pasolini chiamava “la religione del mio tempo”. È il cinema che fabbrica e diffonde la leggenda, amplifica la portata degli eventi, la personalità dei suoi protagonisti. La “fabbrica” del cinema viene qui raccontata dal suo interno: dagli inizi dell’epopea (Cinecittà, inaugurata nel 1936) ai fasti mondani (la Mostra del Cinema) alla crisi finale (Salò, Venezia, Milano). Molti sono i personaggi ispirati a figure reali. Se Alfiero Corazza è un incrocio fra Alessandro Blasetti, Fernando Poggioli o Augusto Genina (pur non avendo il talento di nessuno di questi tre registi!) e rappresenta la vecchia guardia, Cardi s’ispira invece a Luigi Freddi, nominato da Mussolini Direttore Generale della Cinematografia, l’artefice di Cinecittà e dello stretto rapporto fra industria e fascismo. Ma è soprattutto il personaggio di Golfiero Goffredi, alias il partigiano Taylor, a essere vicino al suo modello: Luchino Visconti di Modrone. In Golfiero convivono molte caratteristiche del regista milanese che nel 1943 marcò con Ossessione l’inizio del neorealismo. Aristocratico volitivo e seducente, antifascista convinto e coinvolto nella Resistenza - come Visconti - Golfiero è lo scopritore di Luisa, l’amico e il mentore che si batterà fino alla fine per risparmiarle l’esecuzione.
Sanguepazzo vuole raccontare attraverso tutti questi personaggi una parte dell’avventurosa storia del cinema italiano nei suoi anni più contrastati e dolorosi. Quelli che lo segneranno indelebilmente, fonti dell’ispirazione che lo renderà grande in tutto il mondo.

Da tempo desideravo realizzare questo film, convinto dell’importanza di ripetere alle giovani generazioni cosa fascismo e nazismo abbiano significato non solo per il vecchio continente, ma per il mondo intero. La tragedia della Seconda Guerra mondiale - col suo orrendo corollario di sterminii e guerre civili - oggi sembra remota. È invece terribilmente attuale, se consideriamo che anche questo secolo - anziché ripudiare la guerra - vede l’ingigantirsi di continui focolai. Chi non conosce la Storia è condannato a ripeterla; scomparsi i testimoni diretti, l’esperienza del passato rischia di sfuocarsi al punto da sembrare opaca, indistingibile. È importante che ogni pagina della nostra storia, per quanto controversa e oscura, rimanga vitale materia di studio, di ricerca, di rielaborazione artistica. Vorrei che questo film non apparisse solo come la fedele ricostruzione, un estetizzante film “in costume”, ma fosse invece incisivo e “contemporaneo” come un qualcosa che faccia rima coi nostri giorni, col nostro presente solo in apparenza meno infuocato.
Marco Tullio Giordana

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