William Eddins: Šostakovič, Suite n. 2 per orchestra jazz – Ellington, Harlem

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Jazz Concert
    William Eddins direttore

     

    Dmitrij Šostakovič (1906-1975)
    Suite n. 2 per orchestra jazz (Suite per orchestra di varietà)

    I. Marcia. Giocoso, alla marcia
    II. Danza 1. Presto
    III. Danza 2. Allegretto scherzando
    IV. Piccola polka. Allegretto
    V. Valzer lirico. Allegretto
    VI. Valzer 1. Sostenuto, tempo di valzer
    VII. Valzer 2. Allegretto poco moderato
    VIII. Finale. Allegro moderato


    Un jazz russo
    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Il fatto che Dmitrij Šostakovič si interessasse al jazz, a un primo sguardo, sembra piuttosto sorprendente. Stiamo difatti parlando di un compositore vissuto nel pieno dello stalinismo, quando la Russia si chiudeva a riccio per difendere un solido parallelismo tra arte e politica. Ma in realtà i principi dettati dal Partito Comunista in fatto di musica non erano troppo esterofobi: ciò che contava era scrivere opere facilmente comprensibili, prive di ombre sinistre, pensate per infondere nel popolo - proprio come avviene sempre in tempo di dittature - un sano ottimismo. Il jazz, tutto sommato, rispondeva a quei requisiti; e agli occhi del potere dominante era certamente meno pericolosa una suite scritta a tempo di swing che una sinfonia tetra in cui la gente potesse trovare qualche corrispondenza con la propria condizione disperata (la Quarta di Šostakovič fu ritirata dalla programmazione proprio perché ritenuta «dannosa per il popolo sovietico»).

    La stessa nascita delle due Jazz Suite di Šostakovič prova quanto meno una pubblica accettazione di un repertorio nato e maturato lontano dall’Unione Sovietica: la Prima nacque nel 1934 in occasione di un concorso ufficiale dedicato proprio alla produzione jazzistica; mentre la Seconda (la partitura è andata perduta e l’arrangiamento è stato ricostruita nel 2000 da Gerald McBurney a partire dallo spartito per pianoforte) fu composta quattro anni dopo per una compagine sinfonica di Leningrado nota come Orchestra Jazz di Stato. Evidentemente quel modo di scrivere musica non era ancora ritenuto dannoso nel primo periodo dell’era Stalin.
    Il sostanziale incoraggiamento del Partito per questo particolare genere musicale potrebbe poi avere un’ulteriore spiegazione. Stiamo parlando di un corpus molto più vicino allo stile ridanciano della produzione bandistica che alla ricerca sul fronte del ritmo e dell’improvvisazione portata avanti dal jazz americano. Gli otto numeri che compongono la Seconda Suite di Šostakovič prevedono una colorita alternanza tra danze, marce, valzer e polche, che in realtà non sembrano avere molto a che spartire con le coeve opere di George Gershwin o Duke Ellington. Di jazz, nel vero senso del termine, se ne sente poco: nessuno spazio alle improvvisazioni, melodie da carillon che non nascondono le loro origini popolari russe, soluzioni ritmiche poco sorprendenti; il discorso di Šostakovič sembra perfettamente allineato alle coeve esperienze ballettistiche. Forse alcuni avvertiranno qualche eco del valzer viennese, altri magari penseranno al ritmo indiavolato delle danze esteuropee (tipo il trepak), altri ancora potranno - perché no - rivivere il tono spensierato dei café-chantant parigini. Ma per un russo come Šostakovič, che nel 1938 non aveva ancora visto da vicino l’America, il jazz era evidentemente sinonimo di leggerezza espressiva, danze ben ritmate e sonorità bandistiche; tutte informazioni che
    potevano solo venire da una conoscenza superficiale e stilizzata del fenomeno che stava investendo gli Stati Uniti. In fondo anche agli occhi di Stalin opere come questa non dovevano sembrare tanto distanti dal repertorio da ballo su cui era cresciuto per secoli il popolo russo.

     

    Duke Ellington (1899-1974)
    Harlem (orchestrazione di Luther Henderson e Maurice Peress)


    Un parallelo sonoro di Harlem
    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Negli anni Venti e Trenta del Novecento al Cotton Club di Harlem non si parlava di altro: Edward Kennedy, detto Duke, Ellington stava costruendo le fondamenta di una cultura musicale afroamericana destinata a far impazzire le grandi metropoli. La sua band avanzava continuamente nella direzione della sperimentazione timbrica, alla ricerca di uno stile onomatopeico dei fiati, che il pubblico non tardò a definire jungle. Ma la genialità di Ellington non si esaurisce certo solo nell’ideazione di sonorità orchestrali: i suoi standard sono spesso un sottile gioco incrociato tra melodia e armonia, qualcosa che va al di là del semplice canovaccio da lasciare all’improvvisazione del jazzista.

    Harlem (detto anche A Tone Parallel to Harlem) nacque nel 1953, molti anni dopo il periodo d’oro del Cotton Club; ma in realtà è un omaggio alla lunga storia di quel quartiere, che avrebbe dato a New York i cromosomi necessari per lasciare un segno indelebile nella storia della musica. Dal punto di vista formale non è altro che una successione di episodi, uniti dal minimo comune denominatore del ritmo sincopato, quella straordinaria maniera di giocare con il tempo (sbilanciando i rapporti tra accenti forti e deboli della battuta) che solo i neri di Harlem avevano nel sangue nei primi decenni del Novecento. Naturalmente i fiati la fanno da padrone, sfoggiando tutta la loro vena melodica strafottente: negli episodi lenti avanzano con la flemma sonnecchiante di chi considera il giorno solo una lenta preparazione alla notte; ma quando il ritmo si fa indiavolato intervengono in blocco, e con precisione millimetrica, nei momenti più inaspettati dell’asse temporale. Dalla sezione degli archi vengono fuori con prepotenza i contrabbassi, con il loro swing pizzicato che ha fatto da colonna vertebrale alle grandi jazz band del Novecento. Ma forse i veri protagonisti di Harlem sono gli strumenti a percussione, presenti in ogni pagina della partitura con le loro infinite sfumature timbriche: timpani, gran cassa, batteria, elementi metallici, una sezione enorme capace di percorrere gamme dinamiche che vanno dai
    leggeri rintocchi spazzolati della sezione mediana al rombo assordante del finale.

    Harlem tra le due guerre
    Negli anni Venti e Trenta del Novecento Harlem visse una delle sue stagioni più vivaci. Non a caso, proprio in quel periodo il quartiere venne chiamato “La Mecca dei neri”. Gli scrittori vi si recavano per trarne ispirazione; i ballerini della Julliard School andavano a studiare i movimenti dei danzatori di strada; e anche i compositori cercavano di rubare tra le gente di quelle vie suggestioni da portare sui palchi borghesi di Manhattan. L’impatto sociale trovava un perfetto equilibrio con le risorse artistiche: Harlem era un tappa obbligata, la culla della rivoluzione culturale che avrebbe influenzato molti intellettuali della prima metà del Novecento. Leggendarie erano le nottate trascorse in compagnia del ballerino di tip tap Bill “Bojangles” Robinson: il “sindaco di Harlem”, come veniva chiamato da tutti. Quel crocevia di razze e culture non avrebbe più conosciuto un periodo altrettanto fiorente, e, all’inizio degli anni Trenta, sarebbe stato il primo a pagare le conseguenze della grave depressione economica.

    Andrea Malvano

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