John Axelrod: Bruch Concerto n. 1, Daniel Hope violino

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    John Axelrod direttore
    Daniel Hope violino

     

    Max Bruch (1838-1920)
    Concerto n. 1 in sol minore op. 26
    per violino e orchestra (1864/68)

    Preludio. Allegro moderato [attacca]
    Adagio
    Finale. Allegro energico

     

    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
    L’unica opera superstite

    Il catalogo delle opere di Bruch comprende circa un centinaio di lavori. Ma solo il Concerto per violino op. 26 è rimasto saldamente ancorato al grande repertorio.
    Vissuto tra Berlino e Bonn nella seconda metà dell’Ottocento, Max Bruch scelse di fare il musicista proprio negli anni in cui Liszt, Brahms e Wagner si accaparravano i punti più illuminati del palcoscenico internazionale. Era inevitabile che un compositore cosi solidamente legato al modello di Mendelssohn stentasse a trovare un posto tra i fari della cultura musicale moderna. I suoi ultimi brani da camera, gli Otto pezzi per clarinetto, viola e pianoforte op. 83, furono pubblicati nel 1910,
    poco prima che Stravinskij si apprestasse a comporre il Sacre du printemps; eppure il loro mondo poetico è ancora perfettamente allineato all’orizzonte fiabesco di Robert Schumann. Bruch nacque nel 1838, quando Berlioz stava componendo il Benvenuto Cellini; morì nel 1920, quando Berg lavorava al Wozzeck: ottantadue anni di vita, attraverso uno dei periodi più densi di rivoluzioni artistiche che la Storia abbia mai conosciuto. Bisognava avere una predisposizione particolare per
    riuscire a stare al passo con i suoi contemporanei, e Bruch scelse la strada meno impervia: la sistematica inattualità, l’ombra di Mendelssohn e dei compositori che avevano traghettato la musica dal Settecento all’Ottocento.

    Solo il suo Primo concerto per violino e orchestra è riuscito a conquistarsi l’immortalità, divenendo una pagina stabilmente presente nel repertorio dei grandi violinisti. Opera spontanea ed eloquente, affonda le sue radici nella tradizione di Louis Spohr, sostenitore della cantabilità melodica in opposizione al virtuosismo acrobatico di Paganini. Era il 1868; da circa un quindicennio, dopo il tardivo contributo di Schumann, la tradizione tedesca attendeva un nuovo concerto solistico per violino e orchestra. Bruch si trovava a Coblenza, nella veste di Direttore stabile dell’orchestra locale; forse in un momento di nostalgia per lo strumento che aveva studiato con passione per anni, forse in seguito a una lucida riflessione sulle lacune del repertorio tedesco, decise in quell’anno di offrire il suo apporto a un genere che stava traballando sotto i colpi del poema sinfonico.

    Nacque un lavoro di straordinaria intensità emotiva, dalla fisionomia amabile e discorsiva: un fascinoso miscuglio di spiritualità e passione, che pochi anni dopo avrebbe lasciato qualche traccia evidente nel Concerto op. 77 di Brahms.

    L’introduzione sfoggia un’andatura rapsodica, incede a strattoni anticipando sia il colore zingaresco del tema principale sia le dolcezze decorative della seconda idea; l’orchestra risponde con slancio eroico, conferendo un’ambientazione epica alla fragilità del protagonista. Poi arriva l’Adagio, uno dei movimenti più riusciti di tutta la letteratura violinistica, con il suo calore avvolgente a metà tra le Romanze di Beethoven e le movenze melodiche di Mahler. Quindi ritorna il piglio vigoroso del Finale: una cavalcata ritmica che non nasconde qualche inflessione popolare.

    Pare che il violinista Joseph Joachim, dedicatario dell’opera, fosse spettacolare in questa brillante pagina conclusiva; del resto era nato in Ungheria e non poteva non esaltarsi quando eseguiva brani spiccatamente ispirati alle tradizioni delle sue parti. Per questo i movimenti conclusivi dei concerti di Brahms e di Bruch non mancavano mai tra le parti del suo leggio.

    Andrea Malvano
    (dagli archivi Rai)

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