Roberto Abbado: Paganini Concerto n. 1 op. 6, Sayaka Shoji violino

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Roberto Abbado
    direttore

    Sayaka Shoji
    violino

    Niccolo Paganini (1782-1840)
    Concerto n. 1 in re maggiore op. 6 per violino e orchestra (1816)
    Allegro maestoso
    Adagio espressivo
    Rondò. Allegro spiritoso - Un poco più presto

     

    Paganini e il concerto solistico

    Sono sei i lavori che costituiscono il corpus paganiniano dei Concerti per violino e orchestra: quattro sono completi dell’orchestrazione originale, due sono stati ricostruiti o strumentati nel Novecento, mentre altri due lavori, citati in alcune testimonianze dell’epoca, sono andati perduti. Non esistono cadenze dell’autore (Paganini era solito lasciarle all’improvvisazione) e lo schema formale in tre movimenti, Allegro-Andante-Rondo, è applicabile a tutti i concerti. Una folta campionatura delle soluzioni tecniche avanzate pervade le parti solistiche: pizzicati con la mano sinistra, corde “picchiettate” con l’archetto, suoni nasali ottenuti dall’arco “vicino al ponticello”, pizzicati nervosi, evanescenti suoni armonici, lunghi passaggi su una sola corda, “scordature”. Molte di queste soluzioni erano già conosciute dal violinista settecentesco Locatelli; fu solo con Paganini, tuttavia, che esse arrivarono a trovare un impiego massiccio, divenendo pane solo per i denti dei grandi virtuosi. La credenza secondo la quale tale rinnovamento tecnico sarebbe stato generato da mani lunghissime è contraddetta dal calco in gesso dell’arto di Paganini. Fu una straordinaria scioltezza di legamenti, forse addirittura causata dal rarissimo morbo di Marfan, il motivo che facilitò la realizzazione di tecniche violinistiche così complesse; l’immagine fornita dal giornalista Castil-Blase descrive meglio di qualsiasi studio scientifico la stupefacente flessibilità della mano di Paganini: “sembrava di vedere un fazzoletto legato in cima a una canna”.

    Primo della serie, il Concerto n. 1 op. 6 fu composto nel 1816, e già dall’apertura denota alcune affinità con il timbro orchestrale di Rossini, amico intimo di Paganini fin dal 1813. L’indicazione dell’autografo prevede un organico variabile, da definire a seconda delle diverse disponibilità delle orchestre. L’Adagio è noto come “aria di prigione”; pare che sia stato ispirato a Paganini da una scena drammatica di prigionia; ma ciò che emerge con maggiore evidenza è l’influenza del melodramma: l’orchestra sembra introdurre un’aria d’opera affidata alla voce del violino. Nel Rondò spiritoso domina una delle specialità di casa Paganini: la melodia cantabile interamente eseguita su una sola corda (la quarta). Ma tutto il Concerto, in realtà, prevederebbe l’uso di un accorgimento insolito: un violino “scordato” (accordato cioè un semitono sopra) e quindi più brillante in virtù di una maggiore tensione delle corde. La soluzione, probabilmente, era dettata dalla scarsa incisività dinamica dei violini con le corde di budello; ma oggi la sistematica applicazione delle corde metalliche ha portato i concertisti a trascurare definitivamente l’indicazione dell’autore: il Concerto non viene più eseguito in mi bemolle maggiore, ma in re, e il violino solista mantiene la consueta accordatura.

    Il mito di Paganini

    Nato a Genova nel 1782, Niccolò Paganini trascorse gran parte della sua infanzia a diretto contatto con l’energica semplicità dei suonatori di strada. Fu il padre, scaricatore di porto dilettante di musica, a mettergli in mano, senza troppe pretese, prima un mandolino e poi un violino; ma Paganini all’età di dodici anni era già un virtuoso e le più importanti sale da concerto si contendevano il suo straordinario talento. Stava nascendo l’era dei grandi concertisti: non più figure coccolate dagli ambienti di corte o vincolate a una singola associazione concertistica, ma musicisti dalla valigia perennemente in mano. A parte una breve parentesi (1805-1809) presso la corte lucchese della sorella di Napoleone (la contessa Baciocchi), tutta la vita di Paganini fu dedicata al concertismo, alle tournée, alla produzione di un repertorio da concerto e all’usanza di sfidarsi con altri virtuosi in “singolar tenzone”. Compito principale del concertista era quello di sorprendere, e Paganini sapeva farlo come pochi; pare che fosse solito conquistarsi l’attenzione degli ascoltatori imitando sullo strumento ad arco qualsiasi verso d’animale, e che gli capitasse sovente di continuare a suonare in pubblico, senza curarsi di aver rotto alcune corde dello strumento.

    Ma Paganini non sorprendeva solo nelle sale da concerto: era capace di commissionare e poi rifiutare a Berlioz la stesura di una composizione, non sapeva fermarsi di fronte ai rischi del gioco d’azzardo e non riusciva a resistere ai pericoli del fascino femminile. Leggende fantasiose o ricostruzioni attendibili, tutti gli aneddoti legati al nome di Paganini ci offrono la misura di una suggestione straordinaria sui contemporanei. I biografi hanno dovuto lottare accanitamente per ripulire la vicenda paganiniana da tutte le distorsioni romanzesche: Paganini non scoprì i segreti del violino trascorrendo lunghi anni in carcere a Parma, come tramandato da Stendhal nella Vita di Rossini, ma fu imprigionato solo per pochi giorni in seguito ad una denuncia per “ratto e seduzione di minorenne”, il noto detto “Paganini non ripete” non corrisponderebbe a una proverbiale abitudine del musicista, ma ad un singolo episodio avvenuto nel 1818 al Teatro Carignano di Torino. E così via: quello di Paganini è un mito tentacolare, che sfugge a ogni tentativo di ricostruzione storica. Tutto il romanticismo rimase profondamente influenzato da quel temperamento dionisiaco; Schumann scriveva: “Paganini stesso deve stimare il suo ingegno di compositore più che il suo genio eminente di virtuoso”; Liszt arrivò a formulare l’ideale del virtuosismo trascendentale proprio sulla base della conoscenza delle esibizioni paganiniane; e Schubert ascoltando il suono di Paganini esclamò: “ho sentito cantare un angelo”.

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