Sergio Alapont: Mahler, Blumine - Haydn, Sinfonia in do maggiore

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Sergio Alapont direttore

     

    Gustav Mahler
    Blumine, secondo movimento poi espunto
    dalla Sinfonia n. 1 in re maggiore

    Joseph Haydn (1732-1809)
    Sinfonia in do maggiore Hob. I n. 97

     

    Gustav Mahler
    Blumine, secondo movimento poi espunto
    dalla Sinfonia n. 1 in re maggiore
    Andante allegretto


    Una vittima illustre
    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Mahler iniziò a lavorare alla sua Prima Sinfonia a ventiquattro anni, nel 1884. Era il suo primo vero avvicinamento al genere sinfonico; ed era inevitabile che la genesi del lavoro fosse densa di indecisioni e di ripensamenti. Ci vollero quattro anni perché la stesura fosse completa; ma la prima versione in cinque movimenti, intitolata Poema sinfonico in due parti, decretò un imbarazzante insuccesso a Budapest nel 1889. Stessa sorte toccò alla successiva esecuzione del 1893 ad Amburgo. L’opera questa volta era intitolata Titan - Un poema sinfonico in forma di sinfonia, ed era anche dotata di un programma apparentemente ispirato al romanzo di Jean-Paul Richer Il Titano: nascita, amore e morte di un eroe romantico. La prima parte, intitolata Dai giorni della giovinezza, era formata da tre episodi, l’infanzia (Primavera infinita), una scena d’amore (Blumine) e il raggiungimento del successo (A gonfie vele). La seconda parte, Comoedia humana, concatenava un episodio funebre ispirato a un’incisione di Moritz von Schwind (Marcia funebre alla maniera di Callot) e l’apoteosi del protagonista (Dall’inferno al paradiso). Anche in questa veste, però, la Sinfonia lasciò indifferente il pubblico.

    Un anno dopo Mahler aveva nuovamente cambiato idea: niente programma ed espunzione della scena d’amore intitolata Blumine. Ma nemmeno l’esecuzione di Weimar, nel giugno del 1894 suscitò consensi; e veri e propri fischi arrivarono a Berlino, dove l’opera fu presentata sempre in quattro movimenti con il titolo di Sinfonia in re maggiore per grande orchestra. Solo nel 1906 Mahler decise di mettere la parola fine alla complessa genesi del lavoro, apportando gli ultimi ritocchi al materiale da mandare alle stampe. La vittima più illustre di questo lungo percorso creativo fu proprio Blumine, il movimento espunto nel 1896, e mai rientrato a far parte della Sinfonia. Il titolo alludeva a un episodio amoroso (evidentemente tra l’eroe romantico e la sua amata) di ambientazione bucolica, tra prati e fiori di campo (Blumen significa «fiori» appunto). Ma per Mahler evidentemente era un riferimento troppo esplicito al programma inizialmente associato alla composizione: «La ragione per cui li ho eliminati [Blumine e il programma ispirato al Titano di Richter] è dovuta non solo al fatto che li considero poco meno che comprensibili, ma anche all’aver visto come il pubblico venga da essi fuorviato». Blumine rimase dunque inedito per ottant’anni, finché nel giugno del 1967 Benjamin Britten non ebbe l’idea di riproporre il movimento, come brano sciolto, al Festival di Aldeburgh (con la New Philharmonia Orchestra). La pagina certamente merita di essere ascoltata, quanto meno indipendentemente dalla Prima Sinfonia, perché è davvero un gioiello di sentimentalismo campestre; la scrittura di Mahler sembra dovere qualcosa al Berlioz della Symphonie fantastique e dell’Harold en Italie. Forse alle porte del Novecento una pagina in cui i violini cullano una rete di temi cantati con spensieratezza dai fiati non era molto all’avanguardia; ma Mahler non avrebbe sentito in nessun momento della sua vita il desiderio di sconvolgere l’orizzonte d’attesa contemporaneo. La mutilazione della Prima Sinfonia fu dunque più un atto di rinuncia che un vero rifiuto estetico: il tono da “sogno d’amore” di Blumine rischiava di essere troppo esplicito per un lavoro che nel corso degli anni si era progressivamente indirizzato verso l’astrazione. Ciò non toglie che la pagina sia comunque godibile proprio sotto il profilo della trasparenza timbrica, perfetta per esprimere un sentimento privo di ombre, come forse non sarebbe mai più accaduto nel corso del Novecento.

     

    Joseph Haydn
    Sinfonia in do maggiore Hob. I n. 97
    Adagio - Vivace
    Adagio ma non troppo
    Minuetto. Allegretto - Trio
    Finale. Presto assai


    Una sinfonia “con effetti speciali”

    Ultima delle sinfonie composte a Londra per la prima stagione dei Concerti Salomon, la n. 97 fu probabilmente presentata il 3 maggio del 1792. La data coincide con un memorabile evento dedicato esclusivamente ad Haydn: una “beneficiata”, come si usava dire allora, il cui incasso doveva andare direttamente nelle tasche del compositore. Nell’Europa continentale simili usanze non erano ancora consolidate; solo Beethoven, nel 1808, sarebbe riuscito a ottenere una simile attenzione a Vienna. Ma Haydn alla fine del Settecento era senza ombra di dubbio il più grande compositore vivente; e un paese come l’Inghilterra, che aspettava da diversi decenni un erede di Händel, non poteva che coprire di lusinghe (e anche di soldi, naturalmente) un musicista capace di innalzare il livello della vita concertistica locale. L’opera nacque con la chiara intenzione di lasciare un ricordo scoppiettante nel pubblico londinese: la beneficiata difatti non solo chiudeva la regolare stagione di Salomon, ma in un certo senso rappresentava anche un congedo di Haydn dal pubblico che per due anni lo aveva acclamato con tutti gli onori (in estate sarebbe tornato in Ungheria, alle dipendenze di casa Esterházy, la corte che aveva servito per diversi decenni); all’epoca nessuno sospettava che il soggiorno londinese di Haydn si sarebbe presto replicato. Ecco perché la Sinfonia n. 97 pullula di sperimentazioni, che al pubblico di fine Settecento sicuramente devono essere sembrate qualcosa di simile ai nostri moderni ‘effetti speciali’. L’introduzione lenta riesce nell’intento di pennellare un colore plumbeo, davvero raro nella produzione di Haydn, che probabilmente deve essere messo strettamente in relazione con il rovesciamento umoristico del Vivace successivo. L’autore sperimenta inaudite combinazioni timbriche, ora giocando amabilmente con le sezioni degli archi e dei fiati, ora esplorando un contrappunto denso di dissonanze nei legni (nello sviluppo), ora regalando un ruolo di primo piano al fagotto, che ribalta le consuetudini di uno strumento ancora sostanzialmente vincolato a un ruolo di sostegno alla fine del Settecento. Anche il secondo movimento (Adagio ma non troppo) fu pensato come palestra per collaudare nuove idee: in particolare la terza variazione (la pagina è nella forma del tema con variazioni) esplora l’utilizzo sistematico dell’arco “vicino al ponticello”, con l’obiettivo di ottenere una sonorità particolarmente esile e trasparente. Il Minuetto addirittura elimina i tradizionali segni di ripetizione tra le varie sezioni (Minuetto-Trio-Minuetto), optando per un solo ritornello (Minuetto da capo) eseguibile anche con qualche licenza («il ritornello può variare un poco i contenuti»). E il Finale è un gioiello di teatralità (soprattutto nella coda), grazie a una scrittura malleabile come non era mai accaduto prima in una sinfonia di Haydn: sorprese armoniche, dinamiche contrastanti, pause, pizzicati, e una vasta gamma di sonorità comprese tra il fortissimo compatto e il ricamo melodico del singolo strumento.


    Haydn, Mozart e Londra
    Fu proprio a Londra, nel 1792, che Haydn venne raggiunto dalla notizia della morte di Mozart. La data del decesso risaliva al 5 dicembre dell’anno precedente, ma l’informazione arrivò piuttosto tardi in Inghilterra, anche perché da quelle parti il genio di Salisburgo era davvero poco conosciuto. Quando Haydn conobbe i particolari della morte (la scomparsa a soli 35 anni, il funerale pressoché deserto, la sepoltura in fossa comune), rimase sbalordito; per anni diede l’impressione di non accettare la morte del giovane collega, e ogni volta che incontrava un figlio di Mozart non riusciva a trattenere le lacrime. In particolare cercò di sfruttare la sua notorietà in Inghilterra per aprire gli occhi del mondo musicale londinese; così scriveva nel gennaio del 1792 all’amico Johann Puchberg, con cui aveva condiviso nel 1790 le prime prove al pianoforte del Così fan tutte: «Per qualche tempo sono stato fuori di me per la scomparsa di Mozart; non riuscivo a credere che la Provvidenza avesse reclamato così presto la vita di un uomo tanto indispensabile. Il mio solo rimpianto è che prima di morire non sia riuscito a convincere gli inglesi, che a questo proposito vagano nel buio, della sua grandezza. Sareste così gentile di mandarmi un catalogo di quei pezzi che qui non sono ancora conosciuti? Io farò il possibile per farli circolare a beneficio della vedova; ho scritto alla povera donna tre settimane fa e le ho detto che quando il figlio da lei prediletto avrà l’età, gli darò lezioni di composizione al meglio delle mie capacità e senza alcun compenso, perché egli possa occupare in qualche modo la posizione che fu di suo padre».

    Andrea Malvano

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