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Di là dal fiume e tra gli alberi  

Il porto di Taranto

«Taranto è una città perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari». Così Pier Paolo Pasolini nel luglio del 1959, descriveva la città ionica. La stava attraversando a bordo di una 1100, per un reportage sull’Italia balneare, destinato alla rivista “Successo”. Taranto gli appariva come un gigantesco diamante in frantumi, posto al centro di una lunga striscia di sabbia. Un anno dopo comincerà la rivoluzione del siderurgico, con la posa della prima pietra dell’Italsider, e agli occhi del poeta friulano si presentavano gli ultimi attimi di una simbiosi ancora intatta, tra mare, città e abitanti. Il documentario “Il porto di Taranto” di Giuseppe Sansonna, in onda in prima visione domenica 1 marzo alle 22.10 su Rai5 per la serie “Di là dal fiume e tra gli alberi”, racconta la città e i suoi abitanti, partendo dall'immagine di un uomo aggrappato a un delfino, l’eroe mitologico che da sempre è il simbolo della città: Taras. Per altri, invece, l’uomo in sella al delfino è un esule spartano, di nome Fàlanto. Una leggenda che sfuma nella storia: Taras, nome greco di Taranto, fu davvero l’unica colonia fondata da Sparta, intorno all’ottavo secolo avanti Cristo, come testimoniano due enormi colonne, rovine di un tempio dorico. 
Taranto è una città sorprendente, ancorata ad un’isola che sembra ruotare su se stessa, mostrando da ogni punto una prospettiva diversa. Gli angoli di paesaggio sembrano oscillare instabili tra le epoche. Tutto appare in perpetuo movimento, come il mare. Ma forse è solo un’illusione, generata dalla forma unica di questa città. Francesco Sisto sembra un discendente diretto di Archita: volto greco, una visione ampia, da architetto e una solida sapienza pratica, da fine artigiano. Il cuore ancorato alla propria città, sta riannodando i fili di una tradizione, che può trasformarsi in risorsa: la sapienza dei maestri d’ascia, costruttori e restauratori di barche, come il maestro Cataldo Portacci. 
Il compositore Giovanni Tamborrino dice che Taranto può essere percepita come una sinfonia surreale dei contrasti. Come accade a tanta parte di Sud. Una dissonanza armonica che emerge anche dalle foto di Pierfrancesco Lafratta. Artista che, come Tamborrino, ha nel bagaglio un passato nel siderurgico, è dedito a cogliere, e custodire, fotogrammi della città vecchia. Un’umanità in perpetuo equilibrio asimmetrico, che oppone, a una modernità ormai decadente, una resistenza non del tutto inconsapevole. Fatta di lavoro e ritualità concrete, profondamente religiose, di una leggerezza piena di coraggio e di sete di futuro.
Scavalcando i margini delle foto di Lafratta, ci si imbatte nella realtà. Materializzata nel corpo di un pescatore di lungo corso, misteriosamente soprannominato Briosce. Nomignoli la cui origine affonda in un’infanzia spesa in mare, come il resto della vita. Marina militare e Taranto sono un binomio indissolubile, testimoniato anche dal Castello Aragonese, pietra angolare della città che sembra il set dell’Othello di Orson Welles e dove il documentario incontra Francesco Ricci, un ammiraglio molto poco a riposo, marchigiano di stanza a Taranto, che parla del tesoro architettonico che custodisce e restaura da tempo.