La carica dei 101

[Racconto di Massimo Pedroni]

 



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durata 35 minuti




Dopo aver finito di sbrigare le ultime faccende di chiusura della casa e dopo aver affidata la micia Cleofe alle cure della portiera Venanzia, salii sul taxi che mi avrebbe condotto all’aeroporto.
Per essere più precisi, ero diretto a Fiumicino, imbarco per Partenze Internazionali.
Ero leggermente in ritardo, La Guardia - come prevedibile - era già arrivato.
Tra un abbraccio di saluto, un frizzo e un lazzo, cosa tipica dei nostri incontri, l’avventura per il Brasile stava per avere inizio.
Assistiti scrupolosamente dal personale dell’aeroporto incaricato di facilitare le operazioni d’imbarco a persone del mio stampo, ci trovammo nel giro di poco a bordo dell’aereo che ci avrebbe portato a destinazione.
Il posto da me scelto sull’aeromobile era quello esterno nella fila di fondo, adiacente praticamente alla toilette: appoggiandomi un poco qui e un poco là, in caso di necessità, avrei potuto raggiungerla in piena autonomia, senza recare fastidio a nessuno.
Nulla di originale, fa parte delle valutazioni complessive che devo fare quotidianamente nel relazionarmi con il mondo che mi circonda.

Il volo si dispiegò abbastanza serenamente, compreso qualche sobbalzo di troppo dovuto ai vuoti d’aria.
Diramato l’annuncio della fase d’atterraggio, una certa inquietudine cominciò a impadronirsi di me: paura e superstizione, sentimenti che provavo in quei frangenti e ben noti al mio amico, cominciavano a manifestarsi.
L’amico Capitano, memore di analoghe situazioni già vissute insieme, mi precedette:
“Ti prego, evita di raccontarmi l’ennesima barzelletta sui Carabinieri per farti coraggio.
Tanto già le so tutte.”
“Ho un repertorio di storie molto più vasto di quanto tu possa credere, non certo limitato solo a barzellette su di voi.
Non essere sempre così egocentrico!”
“Quale sarebbe allora quella che vuoi raccontare? 
Sentiamo…”, disse Gasparone sbuffando un po’.
“Una storia vera, che ho sentito in televisione ieri o l’altro ieri.
L’ha raccontata un'atleta che ha partecipato a più di un'edizione delle Paralimpiadi.
Senti qua.
La squadra che avrebbe partecipato alle Paralimpiadi di Seoul di qualche anno fa stava consumando qualcosa al bar, prima dell’imbarco.
Erano tutti con la divisa della Nazionale e ovviamente molti atleti stavano in carrozzina.
Un signore, incuriosito dall’insolita carovana, chiese dove stessero andando.
Tutti impettiti e gonfi di orgoglio, gli atleti risposero con entusiasmo che erano diretti a Seoul, come se il motivo fosse ovvio.
Il signore, con molto garbo, gli rivolse allora una semplice domanda: 'Scusate la curiosità, ma che Santuario c’è a Seoul?'”
Gaspare scosse la testa e sorrise di gusto per la divertente ma disarmante ingenuità del buon uomo, come avevano fatto all’epoca gli atleti azzurri.
Di mio, avevo guadagnato un po’ di tempo e arginato le paure.
Il Comandante annunciava che le manovre di atterraggio si erano felicemente concluse: eravamo arrivati a Rio.
A questo punto non dico che stavo a metà dell’opera, ma la parte più insidiosa, per quanto mi riguardava, era stata felicemente superata.
Raggiungemmo con celerità l’albergo, dove ci avevano riservato una stanza veramente accogliente.
Avemmo solo il tempo per depositare i bagagli e darci una rinfrescata: la Cerimonia di Apertura dei Giochi bussava alle porte.

 



Trafelati, ma in tempo, giungemmo al Maracanã.
Mezzacapa mi aveva fatto trovare l’accredito stampa necessario: nel pass era puntualmente compreso come accompagnatore Gaspare.
Il mio fedele amico aveva ormai acquisito l’esperienza necessaria per pilotare la mia carrozzina anche in mezzo alla folla, la confusione e la calca non erano un ostacolo per lui.
Così in pochi istanti raggiungemmo i nostri posti.
Lo stadio gremito offriva un colpo d’occhio estremamente suggestivo.
Nell’intenzione, l’allestimento pensato dagli organizzatori e l’impianto con il suo gioco d’illuminazioni dovevano ricordare una navicella spaziale.
La travolgente allegria dei brasiliani contagiava tutto lo stadio in ogni ordine di posti: a dispetto delle rilevanti contraddizioni di ordine sociale ed economico, questo popolo riesce ad avere sempre il sorriso sulle labbra.
Il 7 settembre, data scelta per l’inaugurazione di quella edizione delle Paralimpiadi, poteva sembrare un giorno come un altro.
Nella Nazione in cui ci trovavamo, però, era ed è un giorno speciale, d’importanza centrale nella vita della popolazione: il 7 settembre del 1822, infatti, il Brasile proclamò l’Indipendenza dal Portogallo.
Considerando l’ambito in cui ci trovavamo, la parola indipendenza assumeva un significato tutto particolare.
Un significato che non aveva a che fare solo con la politica o con la storia, come comunemente si intende, ma con l’obiettivo della quotidiana lotta di chi del tutto autonomo non è.
Cominciarono a sfilare le rappresentanze dei vari Paesi, tra sventolio di bandiere, applausi e canti beneauguranti di benvenuto intonati dagli spettatori: era tutto davvero coinvolgente.

Per il sottoscritto Alessandro Tornelli, detto Andy, e per il Capitano Gaspare La Guardia l’apice dell’entusiasmo fu raggiunto, però, quando entrò nello stadio, a seguito dello sventolante tricolore, la Nazionale Azzurra.
La delegazione italiana era composta da centouno atleti, che si sarebbero cimentati nella caccia al conseguimento di medaglie: si apriva così La carica dei centouno delle Paralimpiadi di Rio.
Seguirono delle belle coreografie.
Rimasi colpito da quella avente come tema la ruota, invenzione fondamentale nella storia dell’Umanità.
La coreografia evidenziava con acuta sensibilità la centralità che la ruota ha nel mondo della disabilità, mettendone in risalto, ad esempio, l’utilizzo ineludibile per le carrozzine.
Seguirono altre intense e significative coreografie, qualche fischio al parlare di autorità brasiliane per questioni interne e pioggia.
Complessivamente si poteva essere soddisfatti per come era andata, era stata una degna introduzione a un avvenimento dai numeri imponenti, importanti.
Quella di Rio era la quindicesima edizione delle Paralimpiadi.
Avevamo visto sfilare le rappresentanze di centosettantacinque Nazioni.
Gli atleti presenti avrebbero gareggiato in ventitré discipline, che avrebbero dato vita a cinquecentootto competizioni, distribuite nell’arco di tempo di undici giorni.
Solo a soffermare l’attenzione per un istante sulla mole di Paesi che avevano aderito ai Giochi, si aveva la chiara percezione che l’iniziativa si era definitivamente consolidata e che oramai era condivisa e supportata a livello planetario.
Facendo queste riflessioni a voce alta, Gasparone intercalò:
“Al di là della competizione sportiva, per me la vera vittoria delle Paralimpiadi è riuscire a richiamare sempre più l’attenzione del pubblico e della stampa sui talenti di persone che secondo molti non ne hanno.”
“Prima ancora, direi sulla loro forza di volontà per non darla vinta alle difficoltà che la vita presenta”, gli risposi.
“Qui non si tratta di abilità o disabilità.
Siamo di fronte a uomini e donne straordinari, di esempio per tutti.”
“Per una volta devo darti pienamente ragione”, replicò il mio amico.
“Bravo! E visto che mi dai ragione ti propongono di continuare la chiacchierata davanti a un buon piatto. Qui c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Svignamocela, prima di rimanere incastrati nel caos del deflusso dallo Stadio del pubblico”, aggiunsi con una punta d’ironia, “lo dico per te”.
“Troppo buono.
Secondo me, lo dici solo perché hai una fame da lupo.
Siccome di lupi affamati qui ce ne sono due, andiamo… e pure in fretta!”
Gasparone si destreggiò con efficiente e rapida precisione: riuscì, devo dire come sempre, a non intruppare nessuno con la carrozzina, nonostante tutte le sarabande di manovre che era stato costretto a fare.
Ci trovammo in breve in una churrascaria di Capocabana, uno dei tipici punti di ristoro brasiliani.
Ce l’aveva suggerita un giornalista di Rio, Alvaro Gutierrez, conosciuto nel settore Stampa durante la manifestazione di Apertura dei Giochi, con il quale eravamo riusciti a comunicare in un inglese che definire maccheronico è un complimento. 

Eravamo, quindi, finalmente seduti nel luogo prescelto.
Nel locale si poteva mangiare della carne alla brace eccezionale: le porzioni come quantità erano generosissime, la qualità superlativa.
Il nostro pasto fu accompagnato da sorsate di guaranà, loro bevanda analcolica, e, in chiusura, da un bicchierino di caipirinha, liquore fortemente alcolico.
“Ma perché si chiamano Paralimpiadi?”, chiese il Capitano, azzannando con garbo d’altri tempi uno strato di carne.
“Il termine nasce dalla fusione di due termini, Parallele e Olimpiadi, Paralimpiadi.
Semplice no?!
A voler essere più precisi, fino al 2004 da noi i Giochi si chiamavano ParOlimpiadi.”
“Bravo, anche questa volta hai studiato.”
“E ti dirò di più…”, mi divertii a proseguire con fare professorale.
“Le prime vere Paralimpiadi vengono considerate quelle che si tennero a Roma nel 1960.”
“Senz’altro questo rappresenta un punto di orgoglio nazionale”, si affrettò a sottolineare Gasparone, senza lasciarsi sfuggire l’appiglio patriottico.
“Certo.
Anche se va detto, a onor del vero, che a livello embrionale cominciò un medico inglese a organizzare delle iniziative sportive per i soldati reduci dal secondo conflitto mondiale, tornati invalidi con differenti carichi di disabilità.
Era un lodevole tentativo di reinserimento nella società.”
Bevendo l’ultima sorsata di caipirinha come sigillo al pasto, esortai il mio commensale con il tono amichevole di sempre:
“Ah Gasparo’, datte ‘na mossa!
Per me mica è finita qui la giornata, in albergo devo scrivere l’articolo per “L’altra campana”. Se no, chi lo sente poi a Mezzacapa.”
“Quando ti scappa qualche inflessione in romanesco vuol dire che hai proprio fretta.
Quel che è giusto, è giusto.
Il dovere è dovere.”
“Ottima risposta.
Non per niente sei della Benemerita.”
Pagammo un conto accettabile e raggiungemmo l’albergo, attraversando una notte carioca piovigginosa, elettrica e carica di energie positive che si respiravano nell’aria.
Arrivati a destinazione, mi misi subito al lavoro.
Il Capitano, invece, si avviò a prepararsi per la notte: sfoggiò un pigiama di tinta indefinibile, inspiegabilmente di flanella, e ciabatte ai piedi color arancione di impareggiabile assurdità.
Vedendo il mio amico così conciato, non potei trattenere un significativo sospiro.
La Guardia, assolutamente imperturbabile, sentenziò:
“Io mi metto a dormire, avremo giornate impegnative da affrontare.
Cerca di fare presto anche tu.”
Così cercai di fare.
Terminai il pezzo con rigore, ma celermente.
Alla fine delle mie operazioni di preparazione per la notte, che svolsi in completa autonomia, nello spegnere la luce, feci carambolare nella stanza un interrogativo:
“Non morirai di caldo con quel pigiama?”
Non ci furono risposte.
La Guardia era sprofondato nel sonno e russava in modo imbarazzante.
Tramortito dalla stanchezza, pensai soltanto:
“Dio mio! I tappi...
Me li sono dimenticati!”
Nonostante questo, crollai anche io tra le braccia di Morfeo.

 



Ben presto fu battezzato il nostro medagliere, grazie alla medaglia d’argento conquistata da Francesco Bettella nei 100 metri dorso, categoria S1: l’atleta azzurro, con questo ottimo risultato, aveva di fatto inaugurato La carica dei centouno.
La partecipazione di ogni singolo sportivo alle Paralimpiadi viene configurata in una classificazione che dipende dai carichi di disabilità che ha.
Per cercare di essere più chiaro, non basta lo stile di nuoto nel quale si gareggia, ad esempio rana, per poter essere ammesso alla gara.
Bisogna avere una classificazione in una specifica categoria, riconosciuta e avvalorata dall’Ente Organizzatore.
Le categorie derivanti da queste classificazioni sono molteplici e tutte miranti a mettere allo stesso punto di partenza, senza vantaggi per chicchessia, i competitori.
Come è naturale, sono meccanismi sempre in corso di perfezionamento.
In passato, così come nell’edizione dei Giochi di Rio, tali meccanismi si sono trovati al centro di polemiche e controversie.
Non indugio, anche per mancanza di sufficienti conoscenze specifiche sui tecnicismi.
Orientativamente posso dire che l’essere catalogato in una categoria o un'altra dipende dal tipo di disabilità: problematiche motorie, della vista o mentali e relazionali corrispondono a categorie differenti, all’interno delle quali si distingue ulteriormente la maggiore o minore percentuale di invalidità.


Le manifestazioni sportive delle Paralimpiadi si svolgevano per tutto il giorno e non in un posto solo: essere presenti a tutte era semplicemente impossibile.
Cercavo di fare del mio meglio.
Confesso che, nel tentativo di seguire più eventi possibili, di fatto stavo sfruttando al limite della pazienza umana il ligio Gasparone.
In realtà, tutto quel clima aveva coinvolto anche lui e le fatiche quotidiane da barelliere non gli pesavano, poi, più di tanto.
In questo peregrinare, come promesso al Direttore Mezzacapa, raggranellavo interviste, testimonianze e curiosità.
Nel costante affannarci per seguire il maggior numero di eventi, ne azzeccammo uno proprio giusto: il primo oro conquistato dai nostri.
Federico Morlacchi nei 200 misti, SM9 era la sua categoria.
Noi c’eravamo!
Tra tanti avvenimenti, quel giorno, avevamo scelto di assistere proprio a quello.
Le premesse c’erano tutte: sapevamo che gareggiava un grande campione, che tra l’altro aveva già vinto anche una medaglia d’argento, dedicata con grande dolcezza alla nonna.
Anche in questa occasione, la prestazione dell’atleta azzurro fu straordinaria, tanto da ottenere il primo posto sul podio.
Sulle note dell’Inno di Mameli, sul pennone saliva il Tricolore.
L’emozione e la commozione erano intense.
Al Capitano, con riflesso incondizionato, scappò un accenno di scattare sull’attenti.
Un eloquente scambio d’occhiate fu sufficiente, per fortuna, a frenare il sorriso canzonatorio che stava per spuntarmi sulle labbra.
L’episodio non bastò a distrarmi: pensavo ai nostri centouno, ma non solo a loro; pensavo agli atleti di tutte le altre Nazioni e alla tenacia, alla volontà, alla dignità con le quali si può invertire una rotta esistenziale che altrimenti potrebbe condurre fatalmente al naufragio.
Oltre le acclarate capacità sportive del campione, da Andy apprezzai veramente le dichiarazioni di Morlacchi a margine della premiazione.
“Questa vittoria è il coronamento di tante sofferenze e tanta fatica.
Questa medaglia è tutta per me.
Meno male che ho una gamba finta, così me ne tremava una sola.”
La grande forza sta qui, nel propellente dell’ironia e dell’autoironia; il distacco critico dalla propria ostica condizione è il primo passaggio del riscatto.
Fatto questo passaggio, senza dubbio estremamente impegnativo, ci si rende conto che il bicchiere non è mai completamente vuoto o completamente pieno per nessuno.
Credetemi, parola di Andy!
“Tu non stai solo vedendo la nostra bandiera sul punto più alto”, non tardò ad accorgersi il mio fedele accompagnatore.
“Caro Gaspare, vedere il Tricolore svettare è una cosa che mi riempie di orgoglio e di gioia, come sai bene.
Ma in questo contesto, qualsiasi bandiera sventoli su quel pennone racconta storie che non hanno confini.
Il dolore, la sofferenza, il desiderio di non mollare mai hanno una sola e unica bandiera, quella della condizione umana…”
Mi persi per un attimo in questa riflessione, prima di avvertire lo sguardo divertito di Gasparone su di me.
“E non mi guardare così.
Sì, lo so, mi sto prendendo troppo sul serio, hai ragione.
Qualche volta, rara, capita anche a me.”
“Dai Andy, vado a prenderti un caffè.
Vado e torno.
Aspettami qui.”
“Non è detto… magari nel frattempo mi metto a ballare un po’ di flamenco.”
“Meno male, sei tornato subito il solito.”
Il Capitano si stava allontanando con la sua andatura da gigante buono, quando fu raggiunto da un mio “Mi raccomando, non dimenticarti di portarmi le nacchere!”
Ne seguì un gesto facilmente ipotizzabile.


Giunse il momento in cui tutte le carte vennero sparigliate, in modo inesorabilmente netto e chiaro: come si usava dire un tempo, “senza se e senza ma”.
Nella gara dei 1500 metri, l’atleta algerino Abdellatif Baka, ipovedente, vinse la medaglia d’oro, con un tempo migliore del campione olimpico in carica.
In realtà, furono ben quattro, compreso Baka, gli atleti che, nella stessa gara, fecero un tempo migliore dello statunitense Matthew Centrowitz.
Un fatto che non poteva non indurre a delle riflessioni.
“Ma non sarà poi che, alla fin fine, tutte queste classificazioni, nate con lodevoli intenti di tutela, finiscono magari per diventare dei limiti?”
Gasparone aveva colto nel segno.
Non sapevo cosa rispondere, sapevo solo che la cosa era estremamente complessa.
Mi buttai a scrivere un altro articolo, facendo tesoro anche della riflessione del Capitano.
Dalla redazione giungevano mail di generico apprezzamento per il lavoro che stavo svolgendo.
Curiosamente mi comunicavano che particolare interesse avevano riscosso le interviste che avevo fatto ad alcuni ideatori e a qualcuno degli esecutori delle coreografie della Cerimonia di Apertura dei Giochi.
Per non parlare di quella che avevo fatto al Caposquadra elettricista della manifestazione e al Caposquadra per l’idoneità e sicurezza degli impianti.
Sono sempre stato convinto che la vita del dietro al sipario (backstage mi sta indigesto) sia sempre fonte di considerevoli sollecitazioni.

 



Come detto, il 7 settembre è il giorno dell’Indipendenza del Brasile, ricorrenza sottolineata con tutto il risalto che merita.
Fatte le debite proporzioni, La carica dei centouno, il 14 settembre, scrisse una pagina delle Paralimpiadi che rimarrà scolpita negli annali della Manifestazione.
Quel giorno gli Azzurri vendemmiarono, è proprio il caso di dirlo, con il conseguimento di ben quattro medaglie d’oro, cui si aggiunsero le due dell’indomani: Alex Zanardi in handbike (dopo un’incredibile rimonta), Vittorio Podestà handbike, Luca Mazzone handbike, Francesco Bocciardo 400 metri nuoto, Assunta Legnante nel lancio del peso – vittoria conseguita nonostante forti dolori alla schiena – e Bebe Vio nel fioretto.
Non mancarono neanche medaglie d’argento e di bronzo.
Ognuno diede il massimo, appassionando il pubblico e conseguendo l’ambito obiettivo, per me fu una sensazione bellissima: mi sentivo coinvolto fino allo spasimo, sebbene io non fossi di certo un atleta.
Ero, però, un Andy che cercava di entrare in sintonia con la vita e i comportamenti degli altri Andy, e sapevo bene quanto impegno, tenacia e sudore c’era dietro a ognuno di loro.
Questi erano tratti comuni a ognuno dei concorrenti, facilmente identificabili nel corso delle fasi delle singole gare.
Estremamente personali furono, invece, le manifestazioni di gioia dopo la vittoria.
I momenti più belli per me furono proprio quelli del tripudio degli Andy di ogni latitudine, che potevano finalmente urlare a gran voce “Yes, I can”. Sembrava ogni volta di rivivere le emozioni dell’impressionante video che aveva accompagnato l’Apertura dei Giochi mostrando le inaspettate abilità dei disabili.
Nelle Paralimpiadi che stavo documentando avevo avuto modo, infatti, di vedere tanti atleti esultare, e giustamente, per i traguardi raggiunti.
Una di loro, però, mi colpì immensamente: Bebe Vio, una giovanissima atleta che, per combattere una malattia invasiva e dilagante, ha dovuto affrontare l’amputazione dei due arti superiori e di quelli inferiori.
A fronte di una condizione inesorabile e crudele come la sua, Bebe non ha mollato e si è impegnata senza riserve nella scherma.
Nella sua esultanza, dopo la stoccata vincente, ci fu qualcosa di più che in tutti gli altri momenti di vittoria, pur galvanizzanti, a cui potei assistere.
Fu qualcosa di indicibile, non so se per la mia incapacità a descrivere questo di più, o semplicemente perché, con il suo modo di esultare, la Vio mi portò in un mondo dove le parole sono così povere e smunte che non rimane altro se non il vagabondare impotenti nei territori dell’inesprimibile.
Quel che so è che davanti alle sue manifestazioni di tripudio anche il cielo ebbe dei fremiti, e di questo sono certo.
Quando poi si rimise le protesi e andò, correndo, ad abbracciare le persone care, si toccò l’apice di questo “Inno alla gioia”, alla vita.
Beethoven stesso, in effetti, era disabile, completamente sordo, quando compose la Nona Sinfonia, di cui “Inno alla gioia” è parte integrante.
Chissà se vuol dire qualcosa?!
Di sottecchi, vidi che anche il Capitano aveva gli occhi umidi… e garantisco, non eravamo i soli.

 



La Manifestazione di Chiusura, con Bebe eletta a fiera portabandiera italiana, sancì ufficialmente la fine dei Giochi di Rio.
Grande poteva essere la soddisfazione per i risultati raggiunti dalla carica dei centouno: alcuni atleti tornavano in Patria con più di una medaglia e l’intera spedizione rientrava gratificata dall’aver riportato risultati nettamente migliori delle Paralimpiadi di Londra 2012.
Le luci cominciavano a spegnersi, i tecnici avviavano le prime operazioni di smontaggio e un poco di malinconia serpeggiava ovunque.
In un locale di Capocabana, dopo aver gustato un’ultima feijoada, pensammo di fare una passeggiata di commiato.
Gasparone spingeva la mia carrozzina sulla spiaggia, prodigandosi nel non farla affondare nella sabbia.
Il tramonto era quasi compiuto e una gradevole brezza marina ci scompigliava quel che rimaneva delle chiome fluenti di un tempo.
Avvertivo un certo affanno nel respiro del Capitano, chiesi di fermarci.
“C’è qualcosa che non va?”, mi domandò stupito.
“No, volevo solo dire una cosa.”
“Cosa?”, intercalò guardandomi.
“Penso che 'Yes, we can' sia necessario quanto 'Yes, I can'.”
Abbracciai l’amico di sempre con un “Grazie” multicolore.

 

 

 
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