Alienor




[Racconto di Giovanna Gra]


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durata 19 minuti


Artorius sentì crescere dentro di sé un lacerante conflitto.
Fu improvvisamente preda di una grande tristezza che lo trascinava giù verso l'ineluttabile e la resa.
In fondo, quante probabilità avrebbe avuto di cavarsela tentando la fuga?
Come poteva da solo affrontare un branco di lupi?

Poi un nuovo impeto che non conosceva, imperativo e violento, lo portò istintivamente ad allungare le mani in cerca di una grossa quercia che sapeva essere lì vicino.
Una volta trovato l'albero, pensava che avrebbe dovuto assumere una posizione di attacco.
Ma cosa credeva?... di combattere?... lui?
Come avrebbe potuto offendere chicchessia, così solo e indifeso com'era?
Nonostante ciò, sentì che il suo volto assumeva un'espressione tirata molto simile a un ringhio.
Dunque era questo l'istinto di sopravvivenza?
Qualcosa che ti spinge ad affrontare disperatamente e ostinatamente l'impossibile?

Alla sua destra, un latrato sordo lo fece sobbalzare.
Il pensiero corse veloce, la scena si chiarì definitivamente:
se non c'era una preda vicino ai suoi piedi che lo facesse apparire un serio antagonista per il lupo, non vi era che un'unica spiegazione:
la preda era lui.

Aderì con le spalle alla quercia per pararsi la schiena, ma il ringhio si divise e in pochi istanti ne percepì più di due.
Troppi.
Era spacciato, nulla poteva salvarlo.
Avrebbe dovuto dare retta alle parole dolci di sua madre, era stato un atto di superbia uscire da solo in quell'universo di gelo.

Mentre sentiva le fiere che gli giravano intorno, capì che era solo questione di tempo.
Non sapeva perché, ma si rese conto di essere in perfetta sintonia con gli umori del branco.
Intuì velocemente, interpretando i rantoli e i mugolii che percepiva intorno, che le fiere stavano solo decidendo chi avrebbe attaccato per primo.

Una in particolare aveva la voce più roca e Art la sentiva sempre più vicina.
Dall'usura del latrato sembrava la bestia più anziana, o forse, chissà, era la più provata.
Per questo, probabilmente, era anche la più affamata.

Poi, improvvisamente, avvertì un forte strappo.
Per qualche istante resistette all'impatto, ma poi si trovò carponi nella neve.
Era pericoloso, anzi, pericolosissimo rimanere in quella posizione, perché il suo collo era alla portata di quelle mascelle vibranti.
E, come tutti, anche lui sapeva che quando un lupo attacca, attacca alla gola.

Provò ad alzarsi.
La stessa spinta violenta si ripeté ancora.
Stavolta, però, lasciò un segno indelebile e affilato.
Artorius si passò una mano sulla gamba e sentì la stoffa dei calzoni umida e calda.
Quindi l'annusò, sapeva di ruggine e ferro:
era il suo sangue.



Conosceva fin troppo bene le tattiche raffinate e ragionate di quei predatori.
Non c'è animale più paziente e metodico di un lupo, quando va a caccia.
Lo avrebbero lasciato dissanguare lentamente e, ai primi segni di stordimento lo avrebbero sfinito.

Aveva la guancia premuta sulla neve da pochi istanti e già incominciava a non sentirla più.
Udiva, però, i passi felpati delle bestie che si muovevano in tondo sul candido manto friabile.
Ogni tanto si scontravano e si attaccavano l'un l'altro, preda di un crescente nervosismo.
I più deboli incominciarono a prendere le distanze e Art li sentì trottare nelle retrovie.
Erano ansiosi, affamati, ma proprio perché deboli avrebbero avuto accesso ai suoi resti, non alla sua persona, si disse amaro.

Ma poi, qualcosa d'insolito accadde.

Un ringhio sordo e profondo fece uggiolare il branco dalla paura.
Art sentì nitidamente i corpi delle bestie scontrarsi l'uno contro l'altro.
Ma il ringhio, quel ringhio, da sordo si fece profondo, persistente e terribile.
Il branco, lamentandosi, abbandonò il campo.
Evidentemente, c'era un nuovo predatore sulla scena.
Un nuovo predatore così potente da farli sparire tutti.

Non era una bella notizia, pensò Art, perché se uno di loro aveva avuto la meglio, significava che la sua morte non sarebbe stata veloce e immediata.
Ora era diventato il pasto di uno solo e la sua agonia sarebbe potuta durare giorni.
I passi felpati della fiera si fecero prossimi, lo sentì annusare, sniffare, perlustrare a lungo.
Poi vide che si era accorto della ferita.
Sarà lì che sferrerà l'attacco, pensò il ragazzo, ha trovato il mio punto debole.
Ma, con gran stupore di Artorius, non fu così.
Dopo qualche istante, l'animale incominciò a leccarlo delicatamente e con esperienza sulla ferita.
Art allungò una mano sulla testa del grande lupo e fu allora che lo riconobbe.
Era l' animale che aveva strappato dalle grinfie di suo fratello.
Proprio lui, bello, forte e riconoscente.

Guado entrò nella sua vita onorando un patto di sangue e neve e dimostrandogli la sua fedeltà.

Lo scortava ovunque e, posandogli delicatamente il muso sulla gamba, gli indicava la strada.
Abbaiava di gioia quando voleva dire sì e abbaiava allarmato quando voleva preservarlo dal pericolo.
Fra i due si sviluppò un alfabeto invisibile fatto di suoni e di mugolii che per Art divennero fondamentali.




Ma anche Caitlin, invidioso, accampava diritti sul raro esemplare e, dopo aver scampato un paio di agguati del fratello, una bella mattina Artorius e il suo lupo abbandonarono quella casa per sempre.

In capo a un anno erano diventati i padroni della foresta.
In quelle terre nulla accadeva per caso, e fu in prossimità di un lago che Art fece l'incontro che il fato tesseva per lui da quando era nato.
Incontro al quale, guarda caso, fu proprio Guado a condurlo, suo malgrado.

La dama del lago, la misteriosa Nimue, gli apparve grazie a un colpo di vento che segnò una breccia fra le nebbie.
Lei gli mostrò l'ingresso del nuovo mondo, lo investì di un compito unico e solenne e, per far questo, gli raccontò la sua storia.
Gli svelò le sue origini annunciandogli che molti misteri lo attendevano nel futuro più profondo.

L'incontro si svolse nel cuore del bosco, in una capanna avvolta dal silenzio e dalla nebbia.
Quando tutto si dissolse, il ragazzo e il lupo si ritrovarono soli, sul ciglio del tramonto.

"Quindi io sarei un meticcio?", disse alla fine Art mentre raccoglieva la legna per preparare il fuoco.
Guado mugolò di soddisfazione.
"Sì, lo so che anche tu vanti gli stessi natali, ma essere metà umano e metà fatato, non so se mi piace."
Guado sembrò disapprovare, come per dire che lui, invece, ci teneva moltissimo.
Art ripeté a se stesso e al lupo le ultime parole che la dama del lago aveva pronunciate prima di lasciarlo.
Gli raccontò la sua missione.
Gliele aveva fatte imparare a memoria e gli aveva fatto promettere di non scordarle.

"Egli verrà dal mare e ti consegnerà la Crocea Mors, daga del divo Cesare.
Quella spada tu condurrai alla pietra che t'indicherà la montagna.
In tanti ne seguono la sorte.
In troppi ne bramano il taglio, ma ella ha già compiuto il suo passo, e ora, deve giacere per sempre a guisa di fratellanza e dare spazio ad altra lama.
A colei, invero, che viene dall'acqua, per guidare sulla terra la moltitudine delle nuove genti, verso la perfezione del castello azzurro...
"

A quelle parole Guado, entusiasta, abbaiò.
"Beato te che sei così contento.
A me questo discorsetto non dice proprio nulla.
Ma visto che la dama ha anche detto che bisogna lasciare che il destino si compia, sai che ti dico?
Non me curerò più di tanto..."
Ciò detto, Art sistemò il fuoco e si mise a dormire.

Mesi dopo, però, da un piccolo promontorio integralmente circondato dalla foresta, Art vide apparire all'orizzonte una nave dalle vele nere, consunte e quadre.

Oramai lui e Guado raramente oltrepassavano i confini del bosco, ma quello era un evento troppo raro e Art sentì in cuor suo che doveva spingersi verso il villaggio.
O forse erano le parole della dama del lago:
"Egli verrà dal mare...", a indurlo ad andare, a spingerlo verso uno strano magico e irrazionale senso di responsabilità.


Non amava scendere a valle, c'erano molte cose che lo mettevano a disagio laggiù.
Prime fra tutte le donne.
Certe donne.
Quelle, per capirsi, che vivevano nei carri e che cercavano sempre di convincerlo ad acquistare un po' di amore per qualche pezzo d'oro.
E, per carità, non era per l'oro...
Art, infatti, non se la passava male, sapeva costruire qualsiasi cosa con le mani e al villaggio, qualsiasi cosa, si vendeva bene.
Ma lui non era quel genere di uomo che si divertiva a comprare le carezze di quel genere di donne, non capiva quell'amore o forse, si diceva, non lo aveva mai provato.

In realtà era ovvio che le donne lo guardassero con interesse.
Gli accadeva tutte le rare volte che era sceso a valle.
Art era molto cresciuto.
Al posto di un ragazzo smilzo e spaurito, ora c'era un bellissimo giovane dalla pelle bianca e tesa e dai muscoli ben torniti dalle fatiche della montagna.
Aveva sviluppato un fisico slanciato, atletico, tanto che, forse, nemmeno i suoi vecchi lo avrebbero riconosciuto facilmente.
Grazie agli insegnamenti di Guado, poi, mangiava bene e la selvaggina migliore era spesso infilzata nel loro spiedo.
Questo contribuiva a conferire a entrambi un'aria sana e straripante energia.

E ora, eccoci tornare al principio...
oltre la culla della folta foresta, prima dell'inizio del mare, nell'esigua striscia di villaggio.
Giorno di mercato.

Là dove la gente urlava in dialetto gaelico, irlandese arcaico e in altri idiomi sconosciuti, tipici dei Welsh, provenienti dalla costa.
Là dove una moltitudine di razze arrivate per vendere e piazzare ogni ben di Dio, avrebbero combattuto, trattato, urlato anche solo per un quarto di moneta.
Proprio lì, nella piccola piazza dove gli animali erano in mostra c'erano spezie, medicamenti, armi, tessuti e pelli provenienti dall'entroterra e dal mare.
Era il mercato di Hook.
Ci si scambiava il pane al mercato celtico di Hook, e si preparavano delle robuste fascine di legna affinché di notte i fuochi si levassero alti e facessero paura al cielo.

Tuttavia, fra danze, birre fulve e dorate, sapori forti e voglia di scaldarsi a vicenda, per farla in barba al freddo tagliente, non pochi si lasciarono incantare dalla figura del giovane dai capelli rossi.
Era bello, non aveva i denti marci, e il suo saio sapeva di sandalo e cuoio.
E, sebbene si nascondesse dietro un ampio cappuccio, più di una donna si mostrò gentile e bendisposta, attraverso offerte di pane, birra e languidi gesti tutti per lui.

Alcuni uomini, invece, lo osservavano guardinghi e non vedevano quello che ammiravano le donne.
Il ragazzo aveva un'aria da straniero, non era uno di loro.
Poteva essere un discepolo...
Sì, sì, doveva essere uno di quelli, sennò non avrebbe portato al collo quell'amuleto d'argento dalla foggia cara ai druidi, noto come Triskell.
E, soprattutto, non avrebbe ripetuto in continuazione versi come chi, osservando il Ciclo di Meton, doveva impararli tutti entro il diciannovesimo anno di vita.

Alla gente piaceva la magia, perché sovente i druidi guarivano le ferite mortali ed estirpavano le febbri dai loro petti.
Ma il timore e l'ossequio verso un mondo così irrazionale segnava le distanze.

Di questo confabulavano gli uomini fra loro.
E' vero, il discepolo vestiva di un saio mite, ma era armato di cuoio incerato nei punti più teneri: il cuore, la gola, il dorso.
E aveva un astuccio di pelle di cervo proprio lì, dove lo guardavano le donne.
E, dunque, se costui proteggeva del corpo le parti più fragili, questo poteva voler dire una cosa sola: il ragazzo sapeva combattere.

Ma la gente, si sa, osserva e vede ciò che vuole.
Dunque, nonostante la curiosità, nonostante la presunta appartenenza al mondo oltre le nebbie, nessuno suppose, data la grazia e l'agilità con cui Art si moveva, che il ragazzo potesse avere il buio negli occhi.
Questo, per il nostro eroe, fu un vantaggio.

Intanto, all'attracco dell'antico porto, la piccola nave di mercanti dalla vela quadra e il fondo piatto, vomitava i suoi pochi passeggeri.
Un fetore intenso di capre e uomini tenuti forzatamente insieme a causa del lungo viaggio fece allontanare di qualche passo i curiosi.
E mentre i passeggeri percorrevano il piccolo ponticello fatto di scotte pralinate dal sale del mare, Art si mise a sedere su delle vecchie botti abbandonate per disporsi all'ascolto.

Artorius udì molte voci.
Per lui che non poteva vedere, la voce era un indizio importantissimo.
Sapeva capire molte cose, ascoltando la gente.
Per questo era sempre cosi silenzioso e preferiva far parlare gli altri.

Quel giorno, fra le tante voci che scesero dall'imbarcazione, una sola lo colpì veramente.
Era una voce giovane, acerba, dagli accenti talvolta sfrontati, a volte esitanti.

Art, cogliendo brani di conversazione fra due marinai, seppe che quella voce apparteneva alla figura esile e impaziente di un cavaliere.

Il giovane in questione doveva avere un'aria regale ed essere ben vestito perché i due discussero a lungo del balteus che il ragazzo ostentava in vita.

Il balteus, negli autoctoni, ispirava sentimenti diversi poiché era un accessorio, per l'esattezza una cintura, che aveva sempre contraddistinto i pretoriani romani.
Ma come, si chiedevano pieni di sospetti i due marinai, i Romani non avevano abbandonato l'isola?

Art, bramoso di ascoltare, si avvicinò ai due e apprese che, appeso al solido e coriaceo balteus del giovane legato, pendeva una piccola gladio di chiara forgia romana che scintillava d'oro alla luce delle torce.

Il giovane, dicevano, aveva tenuto il viso coperto per tutto il viaggio e le poche volte che lo aveva mostrato era curiosamente brunito dalla mina di piombo.
Forse aveva qualcosa da nascondere, o non si voleva far ricordare, supposero ancora i lupi di mare.
Fra le mani aveva un bastone avvolto negli stracci.
E, nonostante il vento e il mare mosso, non se ne era mai separato durante il viaggio, nemmeno per un istante.
Entrambi convennero che, quella cosa avvolta dagli stracci, doveva essere molto preziosa per lui, anche se poteva trattarsi solo di una lancia, una pala, oppure un'altra daga.

La conversazione dei due marinai fu interrotta dal diretto interessato che, non sapendo a chi chiedere, s'informava presso di loro circa la provenienza di canti e grida oltre che di quell'ottimo odore di carne rosolata che si sentiva appena messo piede nel porto.
Gli uomini, diffidenti, gli indicarono il mercato e il giovane romano si diresse verso l'interno del villaggio.
Art, mentre questi si allontanava, si mise in ascolto dei suoi passi.
Dopo qualche minuto era in grado di riconoscerlo fra mille.
Il romano aveva un modo di camminare spedito, deciso e curiosamente leggero, per essere un uomo.
Art aveva, comprensibilmente, un orecchio speciale per questi dettagli.

Intanto, all'entrata della foresta, perfettamente mimetizzato fra le fronde e la neve, un tartufo umido e nero perlustrava l'aria con bramosia e movimenti veloci.
L'estremità di un serico filo di bava d'argento cadde, facendo festa sul manto nevoso.
L'altra estremità continuò a pendere, in barba al gelido vento, da un acuminatissimo incisivo che, di quando in quando, scintillava ai fuochi lontani e alla luna.
Era il grande lupo che attendeva impaziente il ragazzo, che spiava il giovane venuto dal mare e la sua merce raccolta negli stracci.

Al porto, intanto, il giovane romano aveva acquistato del cibo.
Purtroppo, alle sue costole, ora, non vi era più solo Artorius.
Gli abiti e la sua borsa, infatti, avevano attratto più d'uno.

Il giovane forestiero, si trovava al centro degli sguardi avidi e attenti di chi pensava che tutto l'oro del mondo albergava da tempo, forse troppo tempo, sotto le insegne di Roma.
E non a torto... difatti, poco dopo, la bisaccia del giovane si dimostrò capiente e ben fornita.
Dettaglio, questo, che non sfuggì all'avido Connor, balordo del luogo e, di tanto in tanto, sicario crudele per qualche libbra d'argento.

Ad Art, che seguiva il ragazzo con metodo, ma a distanza, non sfuggì il saluto che le donne dei carri riservarono a Connor, seguito dalle sue risposte grevi e pesanti, che rivelarono al giovane celta la presenza del farabutto.

Artorius era intelligente, ma soprattutto era un cacciatore e sapeva molto bene che il predatore mette a rischio la sua vita solo in presenza della preda.
Naturalmente, lo stesso si poteva dire per un ladro e lestofante pluriricercato al pari di Connor.
Connor si divertiva ad andare in giro con una consunta e sbiadita divisa romana, probabilmente strappata a qualche legato morto per la via, e doveva aver individuato, in quel giovane romano, la sua prossima vittima.

Tuttavia, mentre Art si perdeva in congetture, una mano lo prese alle spalle e gli serrò la gola.
"Vuoi dirmi perché mi segui da quando sono sceso da quella lurida nave?", disse la voce giovane e alterata del ragazzo.
Art, che prima di tutto avrebbe dovuto temere per la sua vita, si trovò, invece, a fare curiose valutazioni.
La prima:
nonostante i modi bruschi e la presa decisa, il giovane romano tremava.
La seconda:
le sue mani erano morbide e ben curate, ergo, il suo aggressore non doveva essere troppo abituato a combattere.
Forse era uomo di legge, forse no, ma sicuramente apparteneva a una casta elevata e non sempre abile di spada.

Nel bosco, intanto, Guado, che aveva percezioni che nessun umano avrebbe potuto condividere né provare, si agitava fra i cespugli.
Il suo settimo senso gli diceva che Artorius era in pericolo, ma proprio Artorius gli aveva ordinato di non oltrepassare il limite del bosco.
Guado sapeva che l'ordine era stato impartito per il suo bene.
Troppi cacciatori di pelli e troppe collane con i denti di lupo decoravano i petti della gente del porto.
Guado, degno esemplare della sua specie, era molto rispettoso delle leggi del branco.
Dunque, avrebbe rispettato quell'ordine, anche se l'avrebbe fatto molto soffrire.

Art, per tutta risposta, ficcò un gomito nello stomaco del giovane che lo teneva per il collo.
Questi accusò il colpo.
La situazione in un attimo si ribaltò:
"Possiamo parlare da uomini, o hai bisogno di misurarti da stupido?", sussurrò Art nell'orecchio del nemico.
"Va bene, va bene, lasciami respirare e non reagirò...", rispose l'altro affamato d'aria.

Art lo lasciò andare e poi gli fece cenno di seguirlo.
Quando furono lontani da occhi indiscreti, Art si fermò, si voltò e, forte dei discorsi dei marinai, fece la domanda per cui era sceso a valle.
"Cos'hai fra quegli stracci?"
"Una missione da compiere", rispose l'altro diffidente.
Fecero un altro pezzo di strada fino alla soglia del bosco senza dirsi una parola.
Quindi, Artorius si girò e disse:
"Molto bene... dammi quella cosa perché la tua missione sono io."
"Ah sì?", rise di gusto il giovane legato, "Provamelo!"
Art avvicinò il viso parzialmente coperto dal cappuccio a quello del suo coetaneo e disse:
"Tu non sei un forestiero qualsiasi.
Sotto quegli stracci, tu, porti una spada!"
"Ti sbagli amico", rispose questi con voce dura, "io non porto una spada, io porto LA spada!"
Art tacque e lasciò che l'altro andasse avanti.
"Questa è la morte gialla e non c'è strumento di morte più crudele e preciso."
"La spada di Cesare...", mormorò Artorius.
"Già, la spada di Cesare, che, come dice la profezia... ha già compiuto il suo passo."
Artorius fece un ghigno che l'altro giudicò strano.
"Cosa c'è?
Perché ridi?"
"Ne hai dimenticato un pezzo...", osservò Art e aggiunse, "e ora deve giacere per sempre a guisa di fratellanza e dare spazio ad altra lama."
"Mi stai dicendo che la profezia aveva un seguito?"
"No, ti sto dicendo che io sono quello che dovevi incontrare una volta sbarcato. E che, sì, la profezia aveva un seguito:
quello che ti ho appena detto."

"Mi chiamo Alienor e vengo da Roma", disse il ragazzo allungando la mano, deciso a fidarsi.
"Il cuore dell'impero...", sussurrò Artorius, ignorando la mano.
"Il cuore dell'impero, esatto."

[FINE DELLA SECONDA PARTE]

 

 

 

 

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