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Fine osservatore delle debolezze umane

L'intervista a Giuseppe Battiston sul RadiocorriereTv

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Un ispettore che le è rimasto proprio nel cuore, non è la prima volta che lo incontra...
Il mio incontro con Stucky è avvenuto dal film di Antonio Padovan, "Finché c'è prosecco c'è speranza", un’opera prima tratta dall'omonimo romanzo di Fulvio Ervas. Il film ha avuto un’ottima accoglienza e mi ha lasciato un ricordo davvero molto bello, è stata una piacevole esperienza, soprattutto l'incontro con questo personaggio che mi è rimasto nel cuore. Ho pensato subito di acquisire i diritti dei romanzi di Fulvio, un desiderio che si è trasformato in realtà grazie alla Rai. La serie è nata così e, anche se mi sono portato dietro un po’ di quella vita, la scrittura è andata, piano piano, in direzioni diverse rispetto a quelle narrate da Ervas nei suoi romanzi. Abbiamo mantenuto il cuore di quella figura e, naturalmente, le ambientazioni.

A proposito di “ambiente”, il sindaco di Treviso, parlando appunto della città, ha detto di voler “candidare” Treviso a diventare la Vigata di Stucky”…
Per comprendere Stucky e il suo mondo non possiamo fare a meno del luogo dove tutto accade. È un uomo profondamente calato nella città, la vive appieno, lo vediamo camminare senza sosta per le strade di Treviso, di mattina presto, di notte fonda elucubrando intorno ai suoi casi. È un solitario, ma non solo, frequenta l'Osteria di Secondo (interpretato da Diego Ribolla) per confrontarsi con il suo amico, è qui che si rifugia per riflettere, pensare, ascoltare e guardare, a trarre ispirazione. È in ambienti come questi, così particolari ed estremamente affascinanti da raccontare, che si trova la vita, la gente li frequenta per incontrarsi o scontrarsi, per festeggiare o amareggiarsi, è qui che si beve per dimenticare o per festeggiare, c'è continuamente ricambio di umanità. Per me questo è uno degli aspetti più interessanti di questo racconto, per questo commissario non c'è una questura, ma l'osteria dove scorre la vita.

Cosa l'ha conquistata della scrittura di Fulvio Ervas?
Personaggio e storie, ovviamente, e poi le connotazioni sono particolarmente interessanti. Ambientare dei gialli, creare situazioni in cui ci siano degli omicidi da risolvere in una città come Treviso, così tranquilla, elegante, pulita, tersa… è davvero un bel contrasto. Io l’ho trovata una cosa molto nuova, abbastanza inedita.

Come possiamo presentare Stucky al nostro pubblico? È un ispettore capo della Polizia che affronta e risolve i casi in maniera abbastanza solitaria, ha due giovani poliziotti come assistenti (interpretati da Laura Cravedi e da Alessio Praticò), che lo scarrozzano in giro per la città, perché lui non ha la patente, non ha il telefono, è completamente asocial e questi colleghi forniscono supporto logistico e molto altro (ride).  Non è esattamente una squadra, ma sono spesso al fianco di Stucky, che non è un uomo d'azione, non lo vediamo fare inseguimenti, non brandisce armi - nemmeno le porta -, e nella ricerca dei colpevoli è mosso da una grandissima curiosità verso il prossimo. È affascinato dalle persone, vuole conoscere a fondo il contesto che ruota intorno alle vittime. Oltre ai due fedelissimi e all’amico Secondo, ha un rapporto “particolare” con Marina, un medico legale (interpretato da Barbora Bobulova) che ha una sua vita professionale e personale ben avviata, con la quale però l’ispettore ama confrontarsi sia dal punto di vista professionale – la cerca spesso per avere lumi tecnici finalizzati alle indagini -, sia umano. Insieme si trovano molto a loro agio, c’è quella che una volta si chiamava una “corrispondenza”, non proprio di amorosi sensi, ma una sintonia intellettiva e intellettuale molto bella.

L’osservazione attenta di Stucky della gente e degli ambienti rievoca lo studio maniacale della condizione umana di Balzac…
io scomoderei anche Simenon, maestro nella descrizione dei caratteri, di cui che anche Stucky è affascinato. Studia profondamente le persone e le loro debolezze, fatica a giudicare i colpevoli, ma li inchioda, perché è determinato a capire cosa ci sia dietro all'agire umano. C’è però qualcosa che lo fa terribilmente soffrire, i suicidi, non comprende questi atti violenti, contro i quali non si può nulla. E questo lo manda fuori di testa, genera in lui un senso di impotenza che lo disorienta moltissimo.

Pensare fuori dagli schemi, un atteggiamento che stride con la contemporaneità...
È un uomo decisamente fuori dal tempo attuale, ma non fuori dal tempo, nel senso che parlare con le persone adesso sta diventando una cosa addirittura snob, ma è quello che si deve fare. Per conoscere il mondo ci si deve calare in questo, stare tra le persone che lo popolano, da questo punto di vista Stucky è fuori dagli schemi, ma non credo sia un’attitudine che potremmo definire “retrò”, al contrario lo trovo estremamente vitale, e proprio per questo mi piacerebbe che questa serie affascinasse, riuscisse a incuriosire anche il pubblico giovane.

A proposito del suo rapporto con la tecnologia e con i social disse: “La gente preferisco incontrarla a teatro”. Cosa le comunica il pubblico?
Intanto la voglia di partecipare, di essere compresente ad altri a un evento, in quest’epoca è un atto quasi rivoluzionario. Il pubblico che viene a teatro sceglie di confrontarsi con un'esperienza, che avviene lì e in quel momento e che si spera possa portare a una riflessione. Dopo il covid il teatro è ripartito con proposte solo di puro intrattenimento perché, dopo quel momento così buio, la gente voleva ridere, ora, spero, abbia anche ritrovato il desiderio di pensare. Non sono un bacchettone, detesto le tragedie, ma allo stesso modo mi imbarazzano progetti realizzati solo per far ridere di pancia e non di testa. Credo che il mix giusto sia far sì che le persone si portino a casa un sorriso, ma anche una riflessione.

Un po’ più complesso il discorso per le sale cinematografiche…
In questo settore la situazione è drammatica, per uscire dall’angolo si deve cominciare a recuperare la voglia di socialità e comprendere che un film visto in una sala, insieme ad altre persone, non è il fastidio di vestirsi e di uscire, ma è un'occasione di incontro. Il cinema va visto nel suo luogo, perché ha una dimensione completamente diversa dal salotto di casa, dalle distrazioni che l'ambiente domestico dà durante la visione, dal fatto che non riesci a lasciarti veramente andare, che puoi fermarti e riprendere la visione quando vuoi. Il cinema dovrebbe essere una decisione, non un passatempo perché non si ha niente di meglio da fare. C'è così tanta serialità in questo momento che una persona può passare la vita chiusa in casa, perdendo, però, qualcosa di più importante. Dopodiché, è anche nostro dovere fare proposte coinvolgenti e, se è vero che siamo in un momento di crisi, amo ricordare che c'è stato il film di Paola Cortellesi che di italiani in sala ne ha portati tanti. Il mio desiderio è che non sia un caso isolato, ma che la gente ritrovi il gusto di seguire delle storie in un luogo che appartiene al cinema e agli spettatori, se perdiamo il cinema, perdiamo una fetta di vita importantissima.

A proposito di teatro, è in viaggio per l’Italia con Sergeji Dovlatov e “La Valiga” … di cosa si tratta?
È uno spettacolo a cui tengo particolarmente, amo moltissimo l'autore, di cui ho letto quasi tutti i suoi romanzi, lo trovo meraviglioso, divertente, malinconico come soltanto certi grandi scrittori russi sanno essere. È la trasposizione teatrale di un insieme di racconti di natura autobiografica (fatta con Paola Rota, che ha curato anche la regia) nella quale l'autore, emigrato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80, ritrova in fondo a un armadio la sua vecchia valigia di cartone con la quale era partito; aprendola, riaffiorano ben trentasei anni di ricordi di vita in una Unione Sovietica folle, squinternata, tremenda, per lui, però, terribilmente vitale. Si crea un contrasto tra quella forma di libertà, che pensava di trovare negli Stati Uniti, ma che invece lui ritiene addirittura più coercitiva del regime sovietico, e la poesia, la bellezza delle figure che hanno popolato la sua giovinezza. Sono tutti i ricordi di un uomo che, lasciata la sua terra, sapeva che non sarebbe mai più ritornato in patria, c’è, quindi, un sentimento vagamente nostalgico, non certo per il regime comunista, ma per una vita che, anche all’interno di quella gabbia, lasciava spazio alla “follia”.

Cosa metterebbe nella sua personale di attore?
Quando andiamo in giro per lavoro noi attori cerchiamo sempre di portarci qualcosa che ci ricordi casa, anche se spesso ho delle valigie di cose che non uso (ride). Quello che però non deve mai mancare, ovunque io vada, è la curiosità, soprattutto se parliamo di viaggi teatrali, quella per i luoghi che vado a visitare. Siamo tutti diversi noi italiani ed è diverso il pubblico, così come la fruizione degli spettacoli nelle varie zone d'Italia, e non dobbiamo dimenticarlo. È affascinante capire quale tipo di dialogo si stabilisce allora con la gente che incontri, condividere le emozioni di una calorosissima accoglienza da parte del pubblico, che commuove ogni volta perché non è mai scontata.

L’interesse per la gente, è un po’ Stucky anche Battiston…
Credo che siamo tutti, si tratta solo di trovare il coraggio di mettere il naso fuori di casa. Questa è la grande sfida.