Salvatore Sciarrino. Quartetto n. 9: ‘Ombre nel mattino di Piero’

in onda giovedì 29 novembre 2012 all'1.40

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    Salvatore Sciarrino. Quartetto n. 9: ‘Ombre nel mattino di Piero’.
    Scritto per il Millenario di Sansepolcro. Commissione del Comune di Sansepolcro
    (Prima esecuzione assoluta).
    I. Preludio
    II. Recitativo? Liberamente mesto
    Quartetto d’archi ‘Prometeo’
    Giulio Rovighi, Aldo Campagnari, violini
    Massimo Piva, viola
    Francesco Dillon, violoncello

     

    Ombre nel mattino di Piero
    ‘Ombre nel mattino di Piero’, con questo titolo il mio Quartetto n.9 intende celebrare il millenario di Sansepolcro.
    Commemorare vuol dire ricordare insieme. Questo non è soltanto un appuntamento raro nel fatale completarsi della cifra tonda, offertoci da una data di fondazione certa. E’ anche un’occasione onorevole per riunirsi ad ascoltare qualcosa di nuovo e diverso appositamente creato sotto la Resurrezione di Piero.
    E’ il momento di stringersi intorno alla bellezza antica, il cui senso svanisce, per incontrare quella moderna. Per ritrovare princìpi condivisi e ancora da condividere, per scoprire i problemi da discutere. E allora forse, ritrovare il piacere di gioire insieme. Quali parole più adatte di quelle scritte da Beethoven in uno dei tanti abbozzi che si costellano intorno alla Nona Sinfonia? “ Oggi è un giorno solenne: amici, sia festeggiato con canti e…”.
    Sulla convivialità poggia le basi la nostra cultura, non dobbiamo scordarlo. Non scordiamo le nostre origini, Saffo e Alceo.

    Salvatore Sciarrino
    Alcune domande sul quartetto d’archi

    Croce o quadrato?
    Cosa resterà della tradizione musicale, dopo il calare della nostra sera? La vita è imprevedibile, e mentre l’esperienza del passato ci invita a dubitare, noi ci illudiamo che la cultura si possa trasferire senza trauma da un’epoca all’altra; in ciascuno si annida una pretesa di immortalità. Particolarmente gli artisti, dicono di lavorare per sé invece pensano a una esperienza proiettata nel tempo. La continuità è tale perché attende di essere interrotta; la storia non è oggettiva bensì un commento a una lettura, non restituisce la sfera vitale; né i documenti trattengono i particolari che ci hanno fatti felici, disperati, indifferenti. Evidente che la conoscenza del passato altrui sia costituita sostanzialmente di ipotesi e interpretazioni, anche arbitrarie. Talvolta le testimonianze si riducono a zero: che è rimasto dell’antica pittura greca? La sua immagine, duplicandosi nei vasi, fu alterata dalle troppe copiature, nulla sospettiamo del miracolo scomparso.

    Memoria e oblio si tendono la mano. Ogni giorno s’avvia al suo tramonto e, ciò malgrado, immersi nello stupore che le opere d’arte suscitano in chi le coltiva, vorremmo augurarci che fossero risparmiate dalla piena del tempo.

    Sàlvino altri repertori famosi, grandiose sinfonie. Io spero che qualcosa sopravviva dei quartetti per archi composti nel solco dei classici viennesi. Anche se ciò accadesse, sarebbe comunque impossibile, nel futuro in agguato, comprendere cosa oggi rappresenti per un musicista questo genere appartato. Esso si mostra come uno spazio limitato e rigoroso per distillare e sperimentare; pochi compositori, e solo eccezionalmente, si riserbano di accedervi; dentro, grandi modelli proiettano intorno a sé ombre fruttuose da sondare. Seppure un piccolo genere musicale, il quartetto tende a identificarsi con la creatività stessa: per varietà, profondità, invenzioni, aperture. Ecco può trovarvi posto persino la mia ricerca di una monodia assoluta.

    Quanto di bello e importante dona splendore alla cultura umana, raramente viene compreso dalla gente comune. Non so: è giusto? E’ naturale? Alcune opere vengono assunte cofanatismo, quasi icone, anzi reliquie; ma le reliquie, si sa, non sono commestibili. Alcuni nomi divengono celebri presso la massa, staccati dall’organismo del pensiero, cioè senza vita. L’Italia viene oggi sommersa da una musica in apparenza innocua, che inibisce i meccanismi dell’identità individuale. E’ uno degli aspetti più subdoli e dannosi dell’inquinamento. E’ sempre esistita una molteplicità di linguaggi artistici a vari livelli di complessità. Ciò che ora è odioso è la tirannia cui siamo sottoposti, tale da perseguire la musica d’arte per metterne in discussione la stessa sopravvivenza. Sentiamo parlare dei capolavori della normalità; cosa significa questo, se non le cime del banale? Le idee che innervano l‘intelligenza dell’uomo non possono essere accettate perché impegnerebbero menti già ottuse. Così il destino del quartetto, punta del diamante rispetto al cosmo della musica, nascosto ai più. La musica dei classici ha insegnato all’occidente l’autocoscienza individuale; ci ha insegnato a svegliare l’individuo con suono e silenzio, con emozioni intense. Il quartetto spoglia ed esalta l’essenza di questo indirizzo estetico; esso, suo malgrado, si oppone alla musica come passatempo che il commercio (la moda) impone. Estremo rifugio per chi è toccato dalla musica, nell’assordante mare del presente, i fragili quartetti per archi vanno assomigliando a un messaggio chiuso in una bottiglia. Peccato, perché l’arte è di tutti, e tutti potrebbero goderne se varcassero la soglia dell’impegno personale a migliorarsi, verso la libertà di ragionare ciascuno con la propria testa. Chi giunge a conoscere la dolcezza quotidiana in sé, saprà meglio assaporare la vita sociale, terreno necessario dove si semina l’arte.

    Nel quartetto si realizza il mito della parità, dell’equidistanza, di un dialogo incrociato o roteante nel quale l’ascoltatore viene posto esattamente al centro. Ma al centro di che? Un rapporto di affinità parentale sembra adombrarsi nel dialogo; eppure, come inattuale riuscirebbe, e forzato, delineare le fisionomie che vi partecipano! Sarebbero materne o filiali le inflessioni del violino? Con quali parole definire la voce brunita della viola? Sarebbe paterna la presenza del violoncello? Diciamo invece che ciascuno strumento ha almeno una seconda anima. Nel quartetto, luogo dell’affettività, i componenti vengono tutti a misurarsi con l’autorità del primo violinista, colui che si espone più degli altri e deve sollevarsi volando. E il secondo violino? Ci inganniamo se lo crediamo accessorio, poiché sostegno indispensabile al primo e alla struttura generale. Quale che sia la disposizione spaziale degli strumenti, viene comunque a disegnarsi una sorta di T virtuale (o tau), data dalla coppia di violini. Il teatro e le sue movenze non furono cacciati lontano dagli accenti riflessivi, tipici del quartetto. Semmai è la schiettezza del lirismo a bandire le maschere; e però tale schiettezza spalanca strani, indicibili altrove. Viene così in primo piano (penso a Beethoven) una particolare fisio-psicologia senza che vi siano personaggi riconoscibili. Che si tratti della radice, o di un tratto profondo, indistinto, ancora impersonale del dramma in sé? Non solo. Sono gli strumenti stessi a respirare, ansimare: non chi suona o chi scrive. L’autore si rappresenta e, dopo secoli di soggettivismo, sposta il fuoco del percepire coinvolgendo direttamente l’ascoltatore.

    Musica da camera per eccellenza, scritta per il piacere di chi la praticava in famiglia. Non è casuale che un’atmosfera casalinga leggermente dimessa sia divenuta campo ideale per l’esercizio dell’immaginazione e della logica musicale, fino alle speculazioni più metafisiche. Intimità ed elevatezza di stile convergono nel mondo del quartetto; una convergenza quasi mai concessa nel resto dell’esperienza umana. L’espressione, sfoltita, diviene priva di ridondanze; e dunque, in assenza di retorica, le tensioni non si disperdono e le rarefazioni si fanno assolute. Su tutto ciò la discontinuità spazio-temporale e l’introduzione delle mie emissioni multifoniche, inaudite per gli archi, producono risultati lancinanti. Contro ogni apparenza di stabilità, forma è conciliazione di opposti.

    Nel racconto musicale compaiono in sequenza frammenti di varia plasticità. Momenti emotivamente differenziati si accavallano come nuvole. Cambiar umore equivale anche a mutare subitamente scena e paesaggio, clima, meteorologia. L’insieme del racconto regge poiché passa attraverso un’unica prospettiva oggettivata. Non sempre, nel flusso degli eventi, riusciremmo a distinguere sezioni o elementi di raccordo; quando ciò avviene, essi offrono appigli pretestuosi, quasi per distogliere la memoria dall’incertezza dei nostri orizzonti. Incertezza: enigma della forma in quanto attesa. Mistero del principio, l’attimo in cui comincia il nuovo brano, o una nuova parte; l’ignoto si presenta e balza incontro a noi. E questo può avvenire più volte nello stesso pezzo. Quali riferimenti trovare, fuori dalla musica, all’esigenza insopprimibile che ci porta a congiungere ciò che è incongruo e incongiungibile? Riferisco qui alcuni esempi presi da àmbiti eterogenei: le raccolte di poesia, antologie dallo sguardo molteplice; quelle di novelle o romanzi brevi, che specchierebbero le nostre vicende nel loro vario configurare; l’affiancarsi scoordinato di affreschi medioevali, cresciuti per aggiunte progressive, o separate richieste; lo stesso Battesimo di Piero della Francesca striderebbe se ricollocato al suo posto, nel polittico dipinto da Matteo di Giovanni. Ai nostri occhi il fresco di un mattino del rinascimento non tollera un sofisticato carrozzone gotico dai lividi incarnati; che imbarazzo a spogliarsi per quei corpi d’avorio, fermati nell’aria limpida dal pennello di Piero! Un esempio ulteriore: le collezioni tardo barocche ritagliavano le pitture seguendo la geometria delle cornici; alle pareti si stipavano immagini le più disparate, senza la minima preoccupazione di coerenza, collocate piuttosto in base al formato (vedi la quadreria dello Stallburg). Ultimo esempio di unione dei contrari, stavolta pertinente al quartetto: quali doti necessarie ai quattro interpreti? Pensare alto, estro e raffinatezza, d’accordo; ma soprattutto la costanza che spinge a mutare i componenti del gruppo seguendo, guarda caso, un’idea di omogeneità. Disciplina che affina negli anni un quadrato di persone diverse. Molto dopo l’alluvione di Firenze del 1966, giravano per la Biblioteca del Conservatorio pagine scompagnate. Fra di esse una doppia facciata di musica senza vie d’identificazione. Un giorno che attendevo un prestito allo sportello (nessuno poteva andare oltre), il foglio era appoggiato sopra il bancone e mi capitò di gettarvi uno sguardo. L’Andantino del Quartetto di Verdi si riconosce subito, anche nella parte del secondo violino; quando lo dissi, gli impiegati mi guardarono a traverso, senza parole. E’ un ricordo che ho serbato fin’ora, inutile da decifrare.

    Salvatore Sciarrino

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