C’è un giornalismo nel quale credo, che non tramonterà mai: il giornalismo investigativo esaltato a parole ma nei fatti inviso perché non controllabile dai centri di potere. Anche a distanza di tanti anni dai delitti e dalle stragi, è possibile fare emergere un frammento di verità, indagando appunto. Un Paese che dimentica e non svela non ha una democrazia compiuta.
Sono trascorsi quarant’anni dalla
strage di via Carini a Palermo: era il
3 settembre 1982, eppure ancora oggi non conosciamo tutta la verità sull’eccidio mafioso che mise fine alla vita del Generale dei carabinieri
Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie
Emanuela Setti Carraro e dell’agente di polizia di scorta
Domenico Russo.
Rimangono i misteri dei documenti scomparsi dall’auto dove fu ucciso il Generale – lo racconta il figlio
Nando – e quella cassaforte vuota, della quale la figlia
Rita fu testimone.
La figlia
Simona fu fotografata al funerale mentre baciava il cappello del padre da carabiniere: un’immagine straziante, alla quale si contrappone la solitudine in cui fu lasciato il Generale Dalla Chiesa dal Governo, che lo nominò e non gli diede i poteri speciali riconosciuti invece poi al suo successore, il prefetto
De Francesco.
Sappiamo per certo che il Generale Dalla Chiesa, Prefetto di Palermo, stava indagando sui referenti politici delle cosche mafiose, dice il magistrato
Vittorio Teresi che si occupò di una
tranche del processo. Fu un delitto preventivo, con uno spiegamento di forze e
killer mafiosi, che lasciò allibiti gli stessi sodali dei
clan di
Cosa nostra.
Dallo
Speciale Tg1 emergono nuovi particolari. Ma di più: è dalla Resistenza che il Generale acquisì tecniche di indagine e di guerriglia, strategiche per il contrasto successivo al terrorismo e alla mafia.