NERO/BIANCO

La vera storia di Rafael Padilla, Pagliaccio Mister Chocolat (1865/1917)

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Un pagliaccio dal naso rosso e i capelli arancioni è seduto su uno sfondo blu, accanto alla scritta colorata di verde, viola e bianco "Il Pagliaccio Oreste in Nero Bianco, il racconto di Oreste Valente". Indossa una giacca verde acceso e dei pantaloni verde scuro, entrambi con risvolti a righe bianche e rosse. In testa calza un cappellino verde dal quale spunta una margherita e al collo ha un grosso papillon verde a pois viola. Le grandi scarpe sono bianche e rosse.Ehi chi c’è? E che è?
Non sento nulla intorno a me,
Ma ci siete voi, amici ed eroi!
Hola. Olà...Buongiorno... e Buonasera.
Sono Pagliaccio Oreste, vi ricordate?

A milioni ce n’è nel mio mondo Pagliaccio
di storie da narrar. Siete pronti a seguirmi?
Vivo con i piedi per terra e la testa fra le nuvole
Venite con me nei miei mondi fatati per sognar!
Una nuova avventura vi aspetta.

Come state amici? Oggi sono qui, sulla mia nuvola. Sto aspettando la visita di Elizabetha Kronit da Skopje, una lince eurasiatica maestra di stile e bon ton, laureata in filosofia. Fine diplomatica, parla e scrive correttamente in otto lingue, ma quello che colpisce di lei è che è sempre elegante. Porta con disinvoltura abiti attillati di paillettes e mantelline di pelliccia. La sua preferita è una nutria argentina, che indossa con disinvoltura anche a mezzogiorno. Arriva in volo privato dalla Macedonia del Nord, accompagnata da Dante Lillo, il suo assistente, una martora della Croazia un po’ pazzerella che si esprime in versi e che conosce tutte le nuove tendenze della moda. Allestisce le vetrine in tutte le capitali del mondo per prestigiosi stilisti. Quando sono in viaggio, soprattutto d’inverno, Dante Lillo si siede sulle spalle di Elizabetha e diventa un elegante e caldo collo di pelliccia. Ama molto le pellicce la nostra amatissima e vorticosa maestra, ma da vera animalista indossa animali vivi e morbidi che coccola con carezze e bacetti e nutre con cibi prelibati e con vini preziosi. Per noi Pagliacci Elizabetha, detta confidenzialmente Eli, è molto importante. Detiene il brevetto esclusivo del famoso cerone bianco, base del trucco pagliaccio. Dice in un tutorial che ha raggiunto milioni di visualizzazioni sul webpagliaccio: “Segreto di beauty è make-up perfetto. Primis creare base per colore bianco. Secundis usare strumenti per applicazione di make-up. Terzis cipria fissativa, translúcida, incolore, da tamponare con preziosa spugnetta e piumino di oca di Balcani e - vi svelo segreto - sotto occhi e su punta di mento picchiettare con pennello a setole larghe, quello di nonno, quando si faceva la barba. Tutti i Pagliacci grazie a lei hanno la pelle bianchissima che sembra di porcellana delicatissima. Tutti i pagliacci si truccano. Quelli buoni e quelli cattivi. It, Joker, Pierrot, Joe Grimaldi e anche Krusty, il clown dei Simpson. Tutti tranne uno, l’unico che non si è mai truccato e ha esibito con orgoglio il suo volto nero ed è diventato un personaggio mitico nella Parigi della Belle Epoque. Proprio sulla nuvola vicino alla mia, abita questo pagliaccio molto saggio, autorevole e simpatico. Monsieur Rafael Padilla, Cananga il Cannibale, in arte Mr. Chocolat. Mi invita spesso a casa sua. Il giorno del suo compleanno, che è anche il mio, mi ha detto che mi voleva parlare. Sono arrivato da lui. Mi ha servito come sempre la sua famosissima cioccolata in tazza, rigorosamente fondente e mi ha raccontato la sua vera storia. Ha voluto che io diventassi il suo biografo ufficiale e che scrivessi la sua storia così.

Alla fine del secolo scorso, il 5 aprile del 1865 o forse del 1867, nacque a Cuba in una piantagione di cotone un bellissimo bambino. La sua mamma fece appena in tempo a stringerlo al seno che volò in cielo a prendere posto nella costellazione chiamata la Chioma di Berenice. Il padre era uno schiavo, gran lavoratore con una voce bellissima e faceva ridere chiunque quando si metteva a mimare gli oggetti più inconsueti. Era un bambino bellissimo, molto intelligente e allegro e i suoi primi passi furono salti altissimi e acrobazie al ritmo del cake walk, la danza autorizzata agli schiavi delle piantagioni che il suo papà gli aveva insegnato a scoprire dentro di sé e a regalare al mondo. Quando suo padre non poteva ballare con lui, Rafael ascoltava i racconti di Prospero, un vecchio signore che era uno schiavo della piantagione. Aveva cento anni, era altissimo, magrissimo e allampanato, la sua testa era pelata e bislunga, Prospero leggeva le storie di William Shakespeare e raccontava a Rafael delle bellezze del mondo. Aveva una lunga canna di bambù, che usava come bastone e che alzava per indicare al nostro piccolo amico il volo degli uccelli liberi nell’aria e per mostrargli dove finivano l’orizzonte.

Un bel giorno, quando aveva più di dieci anni, Prospero morí e il padre di Rafael lo affidò ad una vecchia signora che, affrancata dalla schiavitú grazie ai suoi maneggi, era andata a vivere nel centro della città dell’Avana. Consegnò alla vecchia, insieme al bambino, una borsa di velluto rosso che era della mamma di Rafael: nella borsa i soldini, tutti i risparmi di una vita di stenti, il libro di Prospero con tutte le storie di Shakespeare. La vecchia aveva una bocca enorme con settantadue denti e quando rideva sembrava un pescecane. Tutti la chiamavano Mami e quando appoggiava le mani sui fianchi sembrava una grossa teiera di bisquit. Un giorno al mercato, Mami vendette, per 18 once, Rafael alla madre di un commerciante spagnolo che viveva vicino a Bilbao. La vecchia di Bilbao ripeteva alla vecchia Mami dell’Avana che voleva comprarsi uno schiavo. La vecchia dell’Avana urlava, con voce acutissima, che questo ragazzo sapeva guidare le navi, cantare e ballare, pulire la casa, fare il bucato, cucinare, portare i bagagli. “È un minatore provetto, - sbraitava concitata - un rabdomante, un mago ed è un grande Pagliaccio che sa divertire vecchi e bambini.” E quando la vecchia spagnola le rispondeva che era tutto perfetto ma che il piccolo era troppo nero, più nero del buio della notte, più nero del lucido delle scarpe della festa, più nero del più nero gatto nero portatore di sventure nere, Mami le garantí che poteva sbiancarlo lavandolo perbene con la soda. Dopo una lunghissima trattativa, la Vecchia di Bilbao comprò il ragazzo. Prese un gigantesco scopone, la vecchia di Bilbao e, gettato il povero ragazzo spaventato dentro la fontana in stile coloniale della piazza dell’Avana, cominciò a strofinargli la schiena. Rafael prese lo scopone, lo gettò addosso alla vecchia di Bilbao, strappò la borsa di velluto rosso alla vecchia dell’Avana, e con soli tre salti si trovò al porto. Non aveva mai visto prima di allora il mare con le barche e le navi che aveva conosciuto bambino nella storia della Tempesta di Shakespeare. Paesaggio cubano: piantagioni di cotone ai due lati dell'immagine in basso, la colorata città dell'Avana sulla sinistra, una nave che solca il mare in alto a destra. Al centro, un tendone da circo dalle allegre righe bianche e rosse.

Corse piu veloce di un fulmine, si nascose nella stiva della nave( più vicina che era diretta in America e dopo un viaggio avventuroso si trovò a New York. La città lo impauriva - tutto grande, enorme, rumoroso, freddo - e dopo poche ore si nascose in un’altra nave: si sentiva al sicuro nella stiva delle navi, come in un guscio di noce, quello di cui parlava Amleto, un altro eroe del libro di Prospero. Con un altro viaggio rocambolesco arrivò in Europa e abbadonò il mare definitivamente in Francia. Anche in Francia Rafael era triste. Niente mare, niente prati. E poi...si sentiva sempre osservato perché era nero ed era grosso e anche perché si muoveva dinoccolato come un pupazzo di gomma. Era davvero simpatico, pasticcione, imbranato, disordinato e bislacco. Nel buio della notte il suo sorriso smagliante, con dentatura perfetta e bianchissima, sembrava uno spicchio di luna piena. Dalla borsa, che era l’unica cosa che possedeva, erano spariti i soldi: forse la vecchia di Cuba o qualcuno sulla nave li aveva rubati, e Rafael, per mangiare, cominciò a lavorare come cameriere in un locale notturno di Parigi.

Lavorava di notte, era scuro. Non si vedeva ed era velocissimo. Lo soprannominarono subito “l’angelo nero” o “Il servitore alato magico”. Fece amicizia con due nani e con una ballerina, con i quali divideva il pagliericcio sotto un ponte nascosto, sulla Senna. Fece addirittura da modello per un pittore che sembrava un folletto e che tutti chiamavano Toulouse Lautrec. I nani e la ballerina, di cui si era innamorato, e con la quale aveva scoperto l’Amore, lo convinsero ad andare con loro a lavorare in un Circo. Avrebbero girato e viaggiato e conosciuto altre città e altri paesi. Non sapeva Rafael che cosa fosse il Circo, ma scoprí presto che era un mondo bello e brutto allo stesso tempo, al margine delle città, abitato da uomini e animali che venivano pagati per divertire i bambini. Si trovò a vivere in carrozzoni sporchi e malconci. Ogni tre giorni si partiva e si cambiava città, si montava un tendone in squallide periferie. Rafael era velocissimo e si divertiva a montare e smontare, la notte giocava a carte e a dadi e stava abbracciato alla bella ballerina. Se era triste guardava il cielo da dove sempre la sua mamma gli mandava un sorriso. Una sera, fredda e piovosa, erano tutti intorno al fuoco, e gli fecero bere così tanto vino, che lui cominciò a ridere più forte che mai e cominciò a ballare freneticamente.

Il padrone del Circo si svegliò e corse a vedere quello che stava succedendo e, divertito, decise che quello sarebbe diventato un numero originalissimo del suo Circo. Accanto alla donna Cannone, al redivivo Ercole che in tre secondi spezzava le catene più dure, fece la sua comparsa Cananga il Cannibale. Il nostro Rafael quando entrava in scena diventava magnetico, il pubblico tratteneva il respiro di fronte a quel cannibale terrificante che proveniva da una terra selvaggia sconosciuta e così lontana. Un giorno capitò al Circo un famosissimo Pagliaccio inglese, acclamato su tutti i palcoscenici del mondo, che oramai non faceva più ridere nessuno. Era stato un grande Pagliaccio, una grande attrazione ma ora era diventato troppo tecnico e intellettuale. Si chiamava Footit e pregò il proprietario del Circo di prenderlo a lavorare con loro. Il proprietario gli disse che aveva già troppi numeri nel suo show, e che c’era la crisi, che la gente voleva qualche cosa di nuovo, ma invitò Footit a girare con loro per un mese, che avrebbe mangiato e trovato un pagliericcio per la notte se in cambio avesse aiutato nei montaggi del tendone e nella pulizia degli animali. Foottit accettò. La sera dello stesso giorno che arrivò al circo, Foottit, esausto, si sedette in platea per godersi lo spettacolo dei suoi colleghi. “Signore e signori, Ladies and gentlemen, Madames e Monsieur, ecco a voi Cananga”. Cananga usciva da una gabbia trasportata da quattro cavalli, usciva come una pantera, emetteva un ruggito, spiccava un salto di tre metri e mentre la gente restava col fiato sospeso, cadeva in una tinozza d’acqua e piangeva provocando risa inconsulte e inconsuete nell’attentissimo pubblico. Foottit rimase folgorato, quasi paralizzato, le labbra addirittura si mossero lievemente in un sorriso e una lacrima gli cadde quasi impercettibile sulla guancia insolitamente senza trucco. Rafael Cananga con il suo numero lo aveva svegliato da uno strano letargo.

Si trovarono di fronte al fuoco quella notte, a condividere lo stesso pagliericcio, e da quel giorno tutte le notti, quando avevano finito il loro lavoro, si trovavano a giocare come bambini provando numeri e gag nuove e mai viste. Sincerità spiazzante, confiance, talento assoluto, intelligenza e tanto cuore. Il padrone del Circo, che spiava le loro prove, capì subito che quello sarebbe stato il numero più forte del suo spettacolo. Quando al Circo o a Teatro una cosa funziona si capisce, si sente come quando sta per arrivare la neve. Aveva proprio ragione il burbero padrone del Circo, in nove mesi le code al botteghino divennero chilometriche, tutti affollavano il tendone per ammirare il duo Nero/Bianco o Bianco/Nero, come preferivano dire i francesi. Nacque dunque in quel Circo squallido e abborracciato la coppia Footit e Chocolat, il “clown bianco” serio e autoritario e l’“Augusto” buffone e bistrattato, un po’ vittima e un po’ servo. Ad una matinée venne allo spettacolo il direttore del più grande Circo del mondo, il Nouveau Cirque di Parigi: rimase folgorato e li scritturò all’istante e, al termine dello show, riempì le tasche dei due Pagliacci di franchi francesi e di monetine d’oro, e li caricò sul suo strano veicolo. Arrivarono a Parigi, Footit e Chocolat, e si chiusero in un teatro per un mese. I più grandi costumisti crearono per loro abiti preziosi che Footit, da bravo trasformista, riempì di mille trucchetti sorprendenti, come un fiore che sbocciava all’improvviso, un papillon che lanciava una cascata di acqua lunga più di tre metri.

Arrivò la sera della prima e il pubblico rimase sbalordito: sospiri, emozioni e applausi scroscianti per quei numeri mai visti. Un trionfo, applausi mai visti. Ogni sera i loro numeri diventavano più lunghi e perfetti e la gente stava in coda al botteghino anche tre giorni e tre notti per non perdersi il loro fantasmagorico spettacolo. Un giorno i fratelli Lumiere, che stavano cominciando la grande avventura del Cinematografo, chiesero se potevano stare con loro alle prove e dopo giorni e notti di riprese crearono pellicole mirabolanti, alcune ancora visibili oggi. Si susseguirono tante stagioni, passarono tanti anni e il loro successo continuava a crescere. Rafael però era sempre più triste.

Usciva dal teatro riverito nei ristoranti perché sapevano che aveva le tasche piene di bigliettoni, la sua statua di cera campeggiava addirittura in un museo, compariva sui manifesti delle pubblicità, aveva tutte le donne, bianche, nere, rosse, gialle che voleva, bastava regalare pellicce e gioielli e offrire magnum di Champagne. Si sentiva se stesso e libero solo quando beveva superalcolici e perdeva tutti i suoi soldi al gioco. Un mattino, dopo una sbornia colossale che gli aveva procurato un coma etilico, si svegliò nella camera di un ospedale. Tutto era bianco, i muri bianchi, le tende bianche, le lenzuola bianche, i pavimenti bianchi. Bianco, bianchissimo assoluto. I suoi occhi si incontrarono con gli occhi di una giovane infermiera dalla pelle più bianca dello zucchero, dal sorriso più dolce di quello della sua mamma in cielo. Da quel giorno i due non si separarono più. Rafael durante il suo soggiorno in ospedale fu tra i pionieri della “Terapia del riso”. Si metteva in piedi nei corridoi delle camerate piene di bambini. Così nero sembrava un grande Chicco di caffè che nuota in un bicchiere di latte, o un seme di cioccolato in una enorme tazza di panna montata .Cominciava a ballare e a raccontare storie vere. Parole che gli uscivano dall’anima. Leggeva le storie di Shakespeare dal libro di Próspero. L’arcangelo Rafael era il medico degli angeli, Rafael Padilla curava le anime dei bambini. Ogni lunedì, giorno di riposo degli artisti, Rafael Padilla andava in ospedale. Era un grande narratore e poi leggeva benissimo, conosceva l’arte delle pause e delle sospensioni... il punto tre secondi di pausa, la virgola un secondo e mezzo, il punto e virgola quasi due. Forse non sapeva nemmeno leggere, sapeva tutto a memoria.

Tutti rimanevano affascinati, soprattutto quando raccontava la storia di Otello. Tutti di colpo trasportati a Venezia, i bambini, gli infermieri, i medici, le suore. Immersi in strani amori, verità nascoste, crudeli menzogne, insopportabili manipolazioni... e poi basta botte, salti, rumori assordanti... Eh sì... sia Foottit che Chocolat cominciavano ad essere stanchi dei linguaggi e dei ritmi del Circo. Si videro, Foottit e Chocolat, un’ultima volta nel 1917. Era un inverno strano, freddo, i gelidi venti della prima grande guerra stavano soffiando sul mondo. Nessuno ormai pronunciava più il nome di Rafael Chocolat Padilla. Quando Chocolat, malato la moglie disse a Foottit di precipitarsi subito lì. Footit arrivò in un baleno: prese la mano di Chocolat e improvvisamente lo vide trasformarsi in stella e volare in cielo tra le braccia di sua madre. Il suo corpo, dimenticato fu gettato nella fossa comune. Ma, si sa, i veri pagliacci non muoiono mai, a loro è concessa una vita eterna e serena sulle nuvole.

 

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