Il dieci febbraio del ’47, settant’anni fa, fu siglato a Parigi il trattato di pace che assegnava alla Jugoslavia l’Istria, Fiume e parte della Venezia Giulia. Ed è proprio il dieci febbraio la data scelta per ricordare quanti negli anni a cavallo di quella storica firma morirono trucidati per mano dei partigiani comunisti del maresciallo Tito o furono costretti a lasciare le proprie terre per evitare quella che solo dopo oltre mezzo secolo si è trovato il coraggio di chiamare con il suo nome, una vera e propria pulizia etnica. E i numeri di quella strage, sono numeri che fanno tremare i polsi: oltre diecimila gli italiani giustiziati dal regime di Tito e gettati nelle foibe del Carso. 350mila, quelli costretti a lasciare ogni cosa per riparare in Italia. Un’Italia matrigna, quella del dopoguerra, che respinse i suoi figli definendoli fascisti anche quando fascisti non erano. Ne parliamo con Antonio Ballarin, il presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia; con Jan Bernas, un giornalista autore di un bel libro dal titolo “Ci chiamavamo fascisti, eravamo italiani”, e con Simone Cristicchi che ha avuto il coraggio di portare in scena il dramma delle foibe con uno spettacolo intitolato “Magazzino 18”.