Superare i limiti: il giornalismo transmediale

In un’epoca digitale, il giornalismo può percorrere molte strade diverse per esplorare forme più efficaci di storytelling. Il giornalismo transmediale è una di queste. Negli Stati uniti, uno dei principali supporter di questo tipo di approccio è Kevin Moloney, fotogiornalista di lunga data, ricercatore indipendente e professore di giornalismo.

Che cosa è il giornalismo transmediale?

Giornalismo transmediale significa disegnare un progetto in maniera tale che possa svilupparsi attraverso media differenti e in modo diversificato, invece che ripetitivo.
Varie sfaccettature di un argomento di attualità appariranno come storie individuali sul canale che serve meglio la storia e raggiunge in maniera più efficace il pubblico che più potrebbe essere interessato. Una nuova prospettiva sullo stesso argomento può poi essere pubblicata su un canale ancora diverso per ancora un altro pubblico. Presa singolarmente ogni storia è efficace, ma nel complesso queste molteplici storie si sommano.

Nel mondo del giornalismo siamo abituati a produrre un servizio una volta e a pubblicare fondamentalmente lo stesso pezzo sulla carta stampata, sul web e in televisione. In quel modo, possiamo solo sperare di raggiungere il pubblico più appropriato per una storia e anche nel caso in cui ci riuscissimo, non daremmo comunque ai lettori o agli spettatori nessuno stimolo ad approfondire quella vicenda.

Non penso che il giornalismo transmediale sia qualcosa di nuovo. È l’obiettivo di tutte le storie, che parlino di cultura, di religione o di Hollywood. Queste storie ti trovano che tu lo voglia o no. Finalmente abbiamo imparato a vederlo e abbiamo iniziato a capire che è un qualcosa che possiamo progettare.

Come si costruisce un lavoro transmediale? Su cosa è importante concentrarsi e cosa è meglio evitare?

Il primo passo è capire a fondo l’argomento. Poi è necessario trovare personaggi e storie interessanti e stabilire in che modo siano collegati tra loro. Una volta definita una lista di storie, occorre capire chi potrebbe trarre maggiore giovamento dalle informazioni contenute in ogni storia e trasmetterla tramite i media che quello stesso pubblico legge, guarda o segue.

Le storie vengono pubblicate in serie, collegandole ad altre parti del progetto e a informazioni esterne che gli utenti potrebbero trovare utili o interessanti (non è detto che tutto il materiale debba venire dagli autori del progetto).

Occorre sempre fornire ai lettori dei modi in cui possono interagire con alcune storie, dovrebbero essere sia digitali sia analogici, e alcuni dovrebbero essere delle esperienze particolari e irripetibili.

Che tipo di storie funziona meglio per la narrazione transmediale? Può farci alcuni esempi?

Una narrazione transmediale si presta bene a storie particolarmente complesse – immigrazione, cambiamento climatico o altre problematiche legate all’ambiente o ai diritti umani. Argomenti come questi di solito coinvolgono più personaggi che possono raccontare molteplici storie su media diversi.

Per quanto riguarda alcuni esempi di progetti transmediali, uno dei miei preferiti è l’edizione 2014 del progetto Future of Food del National Geographic. In questo caso hanno pubblicato 823 pezzi e 472 post sui social media e su 41 canali diversi, digitali, analogici e tradizionali, da tre riviste fino a una serie televisiva, mostre museali ed esperienze di viaggio organizzate.

Un altro esempio è quello di Marshall Project, un sito web che si concentra su un unico argomento, ovvero le problematiche della giustizia penale negli Stati Uniti. Quando una nuova storia è pronta, scelgono su che canali pubblicarla per raggiungere il pubblico che più potrebbe essere interessato a riceverla.

Come risponde il pubblico a questo tipo di storytelling? È un modo efficace di far arrivare le informazioni?

Questa strategia si è rivelata estremamente efficace per l’industria cinematografica e per quella pubblicitaria. Per quanto riguarda i giornalisti, se un lettore si imbatte in un argomento più volte, rimane coinvolto più a lungo, e quell’argomento diventerà importante nella sua vita.

È un modello che dovrebbero adottare anche i media di servizio pubblico? Perché?

Negli Stati Uniti i media di servizio pubblico sono tra coloro che hanno adottato questa strategia con più entusiasmo. Hanno meno limitazioni legate al marketing pubblicitario e spesso hanno a propria disposizione media diversi.

Cosa possiamo aspettarci in questo campo per il futuro?

Credo che ragionare in termini di produzione transmediale sia inevitabile. Ora che il pubblico in pochi secondi ha modo di accedere a notizie provenienti da tutto il mondo, noi giornalisti non possiamo più dare per scontato che il pubblico venga da noi per le ricevere notizie.

Dobbiamo riuscire a far arrivare loro il nostro lavoro e scegliere il mezzo migliore perché le persone possano trovare la nostra storia. Piuttosto che perdere tempo alla ricerca di mitici pubblici di massa, dobbiamo pensare a coinvolgere una moltitudine di destinatari.