Nella "giungla" di Calais

  Paul Adams è il corrispondente diplomatico della BBC ed è stato in prima linea in molti paesi europei per coprire la crisi migratoria in corso, da Idomeni in Grecia alla “giungla” di Calais, dove ha anche preso parte a delle riprese per un video a 360°.

Gli abbiamo domandato com’è raccontare le storie di migranti e rifugiati sul campo e qual è la sua opinione su realtà virtuale e giornalismo.

Lei ha trattato il tema della migrazione in vari paesi, qual è stato il suo taglio nel raccontare momenti della recente crisi?

Penso che il fulcro dell’attenzione, per tutti noi, siano le persone coinvolte. Chi sono? Quali sono le loro storie? Cosa vogliono? Tutto ciò è ovvio, ma ogni volta che ci si occupa di queste vicende sono le storie delle persone che rimangono.
Detto questo, è importante non rimanere “accecati” dal dramma umano. Sì, si tratta di persone, ma anche di politiche, di statistiche e di tendenze. Ho provato ad analizzare alcuni di questi aspetti, per capire come questa storia si è evoluta ed è cambiata nel corso del tempo.

C’è una storia (o storie) in particolare che sono rimaste con lei e che non riesce a dimenticare?

Così tante. A volte sono semplicemente volti o voci, o frammenti di storie. Molte di queste vengono da Calais, dove sono stato svariate volte. È un posto così desolato – le persone sono così vicine e allo stesso tempo così lontane dal raggiungere i loro obiettivi. Cercano di mantenere la loro dignità nella “giungla”. Un uomo che aveva visto morire suo cugino mentre cercava di salire su un treno. Bambini non accompagnati che cercano di sembrare coraggiosi e sicuri di sé ma in realtà sono veramente in difficoltà. Un uomo istruito proveniente da una delle aree tribali del Pakistan, che parlava eloquentemente delle politiche dietro il suo dilemma, proprio mentre la polizia entrava per smantellare il campo. E alcuni dei giovani idealisti che lasciato in sospeso le loro vite per andare ad aiutare persone in posti come Lesbo.

Di fronte a un flusso senza precedenti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo quali sono le sfide principali che ha dovuto fronteggiare in quanto giornalista?

Non è stato particolarmente difficile. Anzi, incontrare queste persone è stato un privilegio. Alcune di loro ho la sensazione di conoscerle già un po’ – ho passato molto tempo in Medio Oriente e in Afghanistan. Sono stato ad Aleppo, a Damasco e a Kabul. Posso più o meno immaginare come possano vedere l’Europa appena arrivano qui. Ho anche visto una grande quantità di disperazione e tragedia nel corso della mia carriera, quindi non ho difficoltà nel raccontare storie dolorose.
Penso che le sfide maggiori siano per la BBC, piuttosto che per i singoli giornalisti coinvolti. È importante che la nostra copertura degli eventi renda giustizia alla storia nella sua totalità. Credo che abbiamo fatto un buon lavoro (senza dubbio vi abbiamo dedicato una gran quantità di risorse).

Secondo lei quali sono le cose da fare e da non fare nel momento in cui si copre una storia così carica a livello umano?

Richiede una costante sensibilità. Una particolare persona è più o meno fragile? Quanto posso sondare o mettere alla prova la loro storia? Non è corretto fare irruzione, registrare una battuta e uscire di cena. Occorre spendere un poco del proprio tempi. Molti rifugiati hanno incontrato tanti giornalisti lungo il loro percorso. All’inizio, speravano che raccontare la loro storia potesse aiutarli a migliorare la propria condizione in qualche modo. Con il passare del tempo, molti sono diventati cinici e diffidenti, avendo capito che noi non siamo lì per aiutarli in nessun modo significativo. A volte sentono semplicemente di essere sfruttati.
Dall’altro canto, occorre anche mantenere una certa distanza critica. La persona davanti a me è credibile? L’essere umano ha una tendenza innata a prendere per buona ogni storia, ma dobbiamo pensare in maniera critica e ricorrere allo scettiscismo quando necessario.

Lei ha anche lavorato sulle condizioni di minori migranti – per esempio in Germania – qual è la sua opinione sulla loro situazione e come ha affrontato un tema così delicato?

Sono trai i migranti più vulnerabili, anche quando cercano di apparire sicuri di sé. Abbiamo dovuto chiedere loro, e alle autorità tedesche, l’autorizzazione a filmarli. Uno o due di loro avevano dei familiari ancora in patria. Ci siamo chiesti se fosse corretto mostrarli o pubblicare tutto quello che ci hanno detto. Alcuni hanno domandato di non apparire in video – ovviamente abbiamo dovuto rispettare la loro richiesta.
La loro situazione è straordinaria, se ci si ferma a riflettere. Ho figli anche io e il pensiero che partano per viaggi come questo è semplicemente incredibile. Come potrebbero mai resistere? Questi ragazzini afgani, siriani e iracheni sono arrivati da luoghi più duri e meno clementi del nostro mondo, e per loro quello che stanno facendo è molto meno notevole di quanto sembri a noi. Ma è difficile non commuoversi e rimanere impressionati dal loro coraggio.

Ed ora passiamo al video girato in 360 gradi a Calais.

Si trattava del suo primo esperimento di  questo tipo? Qual è stata la maggiore difficoltà?

Sì, era il mio primo esperimento. E ci sono state difficoltà di vario tipo. È meglio provare a nascondere la troupe (cosa difficile da fare), oppure si rimane visibili nella storia? Come si gestisce il suono (separatamente nel nostro caso)? Gli strumenti che abbiamo utilizzato sembravano un po’ primitivi (una manciata di GoPro legate a un’asta). Ci sono attrezzature di gran lunga migliori (e più costose) sul mercato. Le GoPro registrano filmati dall’angolazione molto ampia, quindi occorre essere molto vicini per sentire di essere immersi a tutti gli effetti in quello che sta accadendo. E la BBC non ha una piattaforma sulla quale sarebbe possibile trasmettere questo tipo di video, quindi si rende necessario inserire link a YouTube, ecc.

In qualità di giornalista con una lunga esperienza nel giornalismo tradizionale sul campo, qual è la sua opinione su questo nuovo tipo di approccio?

 È ancora difficile capire se è qualcosa che giocherà un ruolo importante nella nostra esperienza di broadcasters.  Ho visto successivamente del materiale, in parte girato dai nostri concorrenti, che mostra che (la realtà virtuale) può certamente essere utilizzata come strumento narrativo. Anche se la natura delle riprese a 360 gradi fa si che si venga trasportati all’interno della scena, cosa che può sembrare contraria al bisogno della presenza di un giornalista che accompagni lo spettatore, un video a 360 gradi può comunque essere utilizzato per raccontare una storia che ha alcuni aspetti (inizio, svolgimento, fine) lineari.
Ma le persone vorranno fare questa esperienza di immersione? Vorranno indossare un casco per immergersi nelle notizie? Sinceramente non ho una risposta a queste domande.