Le sfide del raccontare tragedie alle porte dell'Europa


Foto: Rebecca Harms


Per un’emittente pubblica, informare su un evento geograficamente ampio e complesso come la cosiddetta “crisi migratoria” non è solo una grande sfida, ma anche una questione di organizzazione delle coperture e di cercare di fornire al pubblico prospettive diverse.

Abbiamo parlato con Jonathan Paterson, responsabile della distribuzione delle risorse per le world news della BBC. Paterson ha anche evidenziato una questione che viene ignorata dai più, ovvero le ripercussioni psicologiche che coprire la crisi ha avuto sui reporter, che sono stati testimoni di vicende tragiche in luoghi da loro considerati familiari e pacifici.

In che cosa questa crisi si è distinta da altri avvenimenti che avete coperto in passato?

La crisi migratoria è stata un qualcosa di straordinario, che si è  sviluppata proprio davanti a noi con storie, immagini, testimonianze individuali incredibili; nessuno aveva visto nulla di simile dai tempi della seconda guerra mondiale. Non c’è stato nessun dubbio sull’inviare dei team sul campo. Dovevamo raccontarla.

Tuttavia, si è rivelata anche una vicenda difficile da coprire, nel senso che nessuno era preparato a rispondere a una cosa del genere, e c’era anche un forte elemento stridente, ovvero il fatto che conseguenze di conflitti lontani si palesassero in luoghi che conoscevamo, luoghi in cui fino a quel momento ci sentivamo a nostro agio. Per alcuni questo aspetto si è rivelato molto difficile da affrontare.

Come avete lavorato per assicurare una copertura estesa e variegata?

Abbiamo dovuto pensare con attenzione alle implicazioni degli spostamenti delle troupe – avevamo alcune persone che si muovevano con i migranti lungo la rotta balcanica, altri che rimanevano fissi in punti chiave specifici, per esempio l’estate scorsa l’Ungheria e la Croazia erano due tappe importanti lungo il percorso. Altri giornalisti lavoravano anche nei paesi che i migranti erano riusciti a raggiungere e dove stavano tentando di stabilirsi, per esempio la Germania.

Soprattutto la scorsa estate la vicenda si sviluppava in un modo che richiedeva che ci muovessimo velocemente e nessuno al tempo aveva idea di come coprire un evento del genere. Non era una guerra; era qualcosa che non avevamo mai trattato, né in termini di numeri né di distribuzione geografica.

Quali sono state le principali sfide?

In Europa ci siamo concentrati molto sulla situazione dei migranti a Calais, ma ciò ha comportato anche una serie di preoccupazioni. Le condizioni del campo erano terribili e molti dei nostri corrispondenti, che avevano visto altri campi per i rifugiati in altre aree del mondo, hanno detto che di rado avevano incontrato condizioni così degradanti.

In Turchia, invece, abbiamo coperto le rotte dei trafficanti. Questo tipo di lavoro ha richiesto molte riprese con telecamere nascoste, cosa che ha alimentato non poco dibattito. Tuttavia, abbiamo deciso di non imbarcarci su barche e gommoni per attraversare il Mediterraneo, come invece hanno fatto altre organizzazioni. In questo caso abbiamo tenuto in considerazione le implicazioni etiche del prendere parte a quello che comunque resta un atto illegale, e i rischi non solo per la troupe ma anche per le altre persone a bordo.

E per quanto riguarda la copertura dell’Italia e del Mediterraneo?

L’Italia e il Mediterraneo si sono rivelati una questione del tutto differente. I numeri erano davvero enormi e ci siamo chiesti come avremmo potuto documentarli.
Non penso che siamo stati in grado di comunicare l’enorme dimensione di quanto sta accadendo nel Mediterraneo, come invece siamo riusciti a fare in Grecia. Alcuni nostri giornalisti hanno lavorato a bordo di navi di organizzazioni non governative e hanno cercato modi alternativi di coprire questa storia, ma non siamo riusciti a trasmettere esattamente ciò che volevamo.

Paterson ha anche evidenziato un effetto collaterale del raccontare la crisi migratoria solitamente ignorato: l’impatto psicologico sui giornalisti.

Sul nostro staff  l’impatto psicologico è stato maggiore di quanto ci aspettassimo. Penso che la difficoltà più grande stia nella dissonanza  insita nel fatto che storie senza precedenti avvengano in luoghi a noi familiari. Siamo stati testimoni di eventi tragici in luoghi che in precedenza ci erano sempre apparsi come pacifici.

Per di più molte di queste storie riguardavano minori, e questo è stato motivo di difficoltà per numerosi giornalisti, non solo per coloro che avevano dei figli.

Ovviamente siamo abituati a raccontare guerre e ad operare in altri ambienti pericolosi, ma in tutti quegli scenari si sa con cosa si ha a che fare. Le cose non erano così ben definite in Grecia o in Italia.

Inoltre, a causa dell’ampiezza della storia, abbiamo inviato sul campo un mix di persone, non solo i nostri corrispondenti più esperti, ma anche reporter con meno esperienza. Soprattutto il team in Grecia ha risentito del carattere costante della copertura, dal momento che si ritrovavano immersi in quelle situazioni tutto il tempo, non potevano prendere le distanze.

La BBC è consapevole del problema, ne abbiamo discusso in vari incontri sul tema e abbiamo messo in piedi alcuni sistemi per alleviare queste difficoltà, oltre che ricordare ai reporter l’esistenza di un servizio di supporto psicologico all’interno all’azienda.


Restate collegati perché abbiamo intervistato sul tema anche Hannah Storm, direttore dell’International News Safety Institute