Coprire la crisi migratoria: l'impatto psicologico per i giornalisti

 
Le storie dei profughi bloccati alle porte dell’Europa – in Grecia, Italia, Turchia, Libano – sono le storie di una crisi umanitaria molto diversa da altri tipi di situazioni di conflitto o di guerra. È una situazione che ha delle ripercussioni anche per i giornalisti che si trovano in quei paesi per informare il pubblico su ciò che sta accadendo.
Hannah Storm è il direttore International News Safety Institute, e con lei abbiamo parlato delle conseguenze psicologiche che il raccontare queste cose può avere sui giornalisti.

Basandosi sulle ricerche dell’INSI, in che modo la crisi migratoria si distingue da altre situazioni traumatiche che i giornalisti devono affrontare?

Nel corso degli ultimi vent’anni, gli organi di informazione sono migliorati nel comprendere i rischi collegati alle zone di guerra e  le persone che inviano per seguire i conflitti  tendono ad essere degli esperti nel prepararsi e nel fronteggiare i rischi. La maggior parte sono corrispondenti di lungo corso, che hanno seguito dei corsi di formazione e hanno a disposizione gli strumenti necessari. Come mi ha detto la Caroline Hawley della BBC, quando i giornalisti partono per coprire delle guerre, spesso innalzano delle barriere psicologiche, ma non si fa la stessa cosa in un posto come Lesbo, dove – in altre circostanze – si potrebbe andare in vacanza.

Si ha anche la sensazione che, come mi ha detto il Global News Editor dell’AFP Phil Chetwynd, “quando si copre questo tipo di storia in una zona di guerra, in parte si vivono gli stessi pericoli delle persone che si hanno intorno, e quindi c’è una possibilità di essere feriti o uccisi o rapiti o qualcosa del genere”, ma qui i giornalisti stanno coprendo le devastanti conseguenze di una guerra e di conflitti lontani da una posizione sicura, e la disparità sembra essere profondamente destabilizzante per molti.

Quali sono state le storie che l’hanno colpita di più?

Molti dei racconti che ho sentito dai giornalisti mi hanno colpita, ma sembra che per molti l’esperienza di avere a che fare con bambini rifugiati abbia avuto una particolare forza. Non so se quei giornalisti che sono anche genitori siano stati particolarmente colpiti, tuttavia molte delle persone con cui ho parlato erano genitori. Ma c’è qualcosa che ha a che fare con il fatto che i bambini sono sia indifesi sia innocenti e che rappresentano il futuro dell’umanità. Quando si combina tutto questo con la sensazione che le loro speranze e quelle delle loro famiglie vengono talvolta distrutte in maniera brutale sulle sponde sicure dell’Europa, il risultato è particolarmente straziante.

Dal punto di vista di un’organizzazione che forma giornalisti e cerca di dare loro consigli, quali sono le cose da fare e da non fare quando si tratta di coprire le difficoltà incontrare da migranti, rifugiati e richiedenti asilo? Che tipo di preparazione è necessaria?

Noi lavoriamo con i membri dell’INSI per assicurare che i giornalisti ricevano il giusto tipo di preparazione e formazione per qualsiasi lavoro facciano. Questo varia in base alla situazione e anche all’esperienza del giornalista. A causa della dimensione di questa crisi, giornalisti con diversi profili professionali sono stati inviati, quindi non è possibile un approccio del tipo “una misura per tutti”. In termini di quello che i giornalisti dovrebbero fare, ci sono state molte discussioni  sul tema delle conseguenze etiche di un eventuale coinvolgimento e questa crisi ha davvero messo molti alla prova perché si sono sentiti spinti ad aiutare – e alcuni sostengono che questo vada contro il ruolo del giornalista come osservatore neutrale. Per quanto riguarda intervistare i rifugiati, i giornalisti dovrebbero essere consapevoli del fatto che molti di questi individui sono estremamente vulnerabili e potrebbero aver riportato una grande quantità di traumi per cui dovrebbero prestare una particolare attenzione. Ma i giornalisti  dovrebbero anche essere consapevoli delle proprie risposte e che potrebbero volere o avere necessità di chiedere supporto una volta tornati dalle trasferte.

Quali sarebbero le migliori procedure che manager ed editori dovrebbero mettere in pratica?

INSI sta svolgendo una ricerca con l’esperto mondiale Anthony Feinstein, sull’effetto psicologico che coprire la crisi dei rifugiati ha avuto sui giornalisti e a partire da questi risultati ci aspettiamo di poter lavorare ancora a più stretto contatto con il settore per determinare le guide linea per le migliori procedure da seguire, ma abbiamo già sottolineato che è utile per i giornalisti essere consapevoli della possibilità di accedere a servizi di supporto – sia che si tratti di supporto inter pares o di supporto psicologico. La questione etica è importante. I giornalisti dovrebbero sentirsi in dovere di essere osservatori neutrali o possono essere prima di tutto degli esseri umani? Penso che questo sarà un aspetto a cui dovremo guardare in maniera più approfondita.  Altri con cui io ho parlato  sono stati incoraggiati a scrivere le loro esperienze – l’AFP ha un blog a cui i propri giornalisti possono contribuire. Inoltre, alcune organizzazioni hanno iniziato a parlare di limitare la durata ed il numero di giornalisti inviati sul campo, tuttavia la situazione economica del settore rende il tutto una possibile sfida.

Ampliando un po’ l’ambito di analisi, quanto stigma c’è ancora quando si parla di salute mentale e sindrome post-traumatica relativamente al giornalismo? Quanta attenzione viene data alla questione all’interno delle redazioni e sul campo?

Io penso che la questione della salute mentale sia ancora avvolta da tabù, sebbene rispetto al passato sicuramente le persone del settore sembrino più pronte a parlarne e a riconoscere il problema esiste. In parte questo è avvenuto grazie al lavoro di persone come Anthony Feinstein e organizzazioni come Dart e INSI, e allo stesso tempo grazie ad una maggiore accettazione nella società dell’importanza del benessere emotivo. Detto ciò, penso che ci sia ancora un tabù e ho sicuramente percepito una certa riluttanza da parte di alcuni nell’accettare che i giornalisti che coprono situazioni diverse dalla guerra potrebbero comunque essere esposti a traumi emotivi. È vero che non tutti quelli che coprono queste storie risentiranno di conseguenze psicologiche, ma credo che il settore sia stato colto alla sprovvista per tutta una serie di ragioni.