Olha Vozna - Ucraina

Il programma è stato realizzato in collaborazione con il Ministero dell'Interno - Dipartimento per le Libertà Civili e l'Immigrazione

e con il cofinanziamento del Fondo Asilo Migrazione e Integrazione 2014-2020



Paesi

Ucraina

Un grande territorio, il doppio dell’Italia e il secondo del continente dopo la Russia:  pianure, steppe, bassopiani e colline, con le montagne confinate soprattutto a ovest, nelle propaggini settentrionali dei Carpazi;  grandi fiumi come il Dnepr, il Dnestr e il Danubio, carichi delle acque accumulate nei freddi inverni continentali e nelle estati calde ma umide, vanno a sfociare nella costa a sud, sul Mar Nero.   Una terra scura e fertile e soprattutto una posizione strategica, all’incrocio tra Europa ed Asia:  anticamente, “ukraina” significava “regione militarizzata di confine”.

 

Fu il cuore della Rus’ di Kiev, una monarchia che riuniva popolazioni e territori vichinghi, finnici, slavi e baltici e che tra il X e XI secolo divenne il più grande stato europeo.   Le lotte intestine e le invasioni dei Mongoli indebolirono la Rus’, che finì sotto il dominio lituano e polacco fino al XVII secolo, quando il territorio tornò indipendente con l’Etmanato Cosacco.   Dal XIX secolo, l’Ucraina venne assorbita dall’impero zarista e poi dall’Unione Sovietica, ma continuò a mantenere una sua identità culturale e istanze nazionaliste mai del tutto sopite.  

 

Negli anni Trenta, la collettivizzazione forzata delle terre, la carestia e le deportazioni staliniane alimentarono una ostilità sotterranea che riemerse durante la seconda guerra mondiale, quando non pochi ucraini si unirono alle forze degli invasori nazisti.   Anche allo scopo di ricucire questi strappi, nel ’54 il segretario del PCUS Nikita Kruscev ratificò una specie di “regalo”:  la cessione della Crimea alla Repubblica Ucraina.

Tra le repubbliche dell’URSS, l’economia ucraina era la seconda dopo la Russia e ben quattro volte più importante rispetto alla terza:  eccelleva nella produzione agricola e nell’industria pesante.  

 

Il 26 aprile 1986, a nord, verso il confine con la Bielorussia e a soli 135 chilometri dalla capitale Kiev, un grave incidente nella centrale nucleare di Chernobyl provocò una contaminazione radioattiva in molti paesi europei e, soprattutto, un disastro ambientale e sanitario che segnò e avrebbe segnato ancora per molto il destino di quella parte di Ucraina.  

 

Probabilmente, segnò anche un punto di non ritorno per l’URSS, già in grave crisi di sistema e di immagine:  di lì a poco, sotto gli attacchi esterni e i colpi di stato interni, finì anche il tentativo di riforma di Michail Gorbacev.   Tutto avvenne in tempi rapidissimi e in modo praticamente incruento:  l’8 dicembre 1991, i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia firmarono il trattato che sanciva la dissoluzione dell’Unione Sovietica (ratificato formalmente dal Soviet Supremo il 26 dicembre).

 

La divisione statuale delle repubbliche portò problemi di definizione di confini e di cittadinanza, mentre l’indipendenza non risolse quelli economici e politici.  

Da subito emersero spinte opposte:  liberiste privatiste, neostataliste postcomuniste, filoamericane, filoeuropee o filorusse…  

Nella ricomposizione dello scacchiere internazionale dopo la caduta del blocco sovietico, l’Ucraina tornava, più che mai, ad essere contesa per la sua importanza strategica.

In questo quadro, le destre nazionaliste, rappresentate nella cosiddetta “rivoluzione arancione”, sono state sostenute dai paesi occidentali (soprattutto USA) e dagli ex del Patto di Varsavia, come Polonia e repubbliche baltiche, mentre la Russia è intervenuta a supporto di altre forze politiche e della minoranza  - comunque numerosa -  di lingua e cultura russa (tra il 20% e il 30% del totale della popolazione del paese, ma soprattutto concentrata nel Donbass e in Crimea).  

 

Il conflitto permanente tra i due principali fronti politici ha provocato anni di scontri, discriminazioni, revisioni costituzionali, interventi diplomatici e militari.  

Nei primi mesi del 2014, il presidente filorusso Yanukovich veniva costretto alla fuga e la destra nazionalista optava per la scelta filoccidentale.

Mentre la UE e il Fondo Monetario Internazionale stanziavano massicci aiuti economici all’Ucraina, la Russia di Vladimir Putin invadeva la Crimea e, dopo due settimane, vi indiceva un referendum.   L’esito era quasi scontato:  la regione, a maggioranza di cultura e lingua russa, votò per l’annessione, per il “ritorno alla madre patria”.   Scontata anche la reazione di condanna del governo ucraino, degli USA, della UE e dell’Assemblea generale dell’ONU.

 

Nel frattempo, le regioni orientali (anche queste a maggioranza di etnia e lingua russa) erano scosse dal conflitto armato (con migliaia di morti) tra l’esercito governativo e i ribelli separatisti, sostenuti dalla Russia.  

Il 12 febbraio 2015 a Minsk (Bielorussia), Ucraina, Russia, Francia e Germania sottoscrivevano un accordo:  prevedeva il cessate il fuoco, il progressivo ritiro degli armamenti pesanti, riforme che garantissero l’autonomia delle province orientali ma a condizione che rientrassero sotto la sovranità di Kiev (entro la fine del 2015).   

La tregua ha retto, senza però portare alla completa cessazione delle ostilità.   Nelle città  - a Donetsk, Luhansk o Mariupol -  c’è il coprifuoco dalle 23 alle 6 del mattino e la notte si sentono in lontananza colpi di cannone, di mortaio o raffiche di mitragliatrice, ma i teatri e il circo sono aperti e tra le macerie la gente ha ripreso una vita più o meno normale.   Il 4 ottobre 2016, il Donbass, la regione ribelle che, di fatto, è attualmente autonoma dall’Ucraina, ha votato per le amministrative con un’alta affluenza alle urne, in un clima da sagra, con tanto di tè e di dolci.

E anche se ufficialmente la guerra c’è ancora, l’Ucraina continua a comprare il carbone dal Donbass, perché le sue centrali sono state costruite proprio per quel tipo di carbone.   E se in una parte del confine si continua a sparare, qua e là ci sono posti di blocco che lasciano passare in entrambe le direzioni, affinché la gente non abbia la propria storia e la propria vita divisa in due.

 

E se la guerra con la regione del Donbass ha fatto perdere all’Ucraina una buona percentuale dell’industria pesante, il rapporto più che conflittuale con la Russia ha indotto a ridurre di molto, nel 2015, i rapporti commerciali tra i due paesi, ma non li ha azzerati.  

In un certo senso, la vicinanza storica e l’attuale contingenza rendono difficile sbrogliare la matassa delle relazioni reciproche:  il colosso russo deve evitare l’isolamento e contenere i danni delle sanzioni imposte dalle potenze occidentali, mentre l’Ucraina è ancora troppo dipendente dalla Russia, soprattutto per le fonti di energia, per poterne fare a meno.   La tensione tra i due paesi (emersa negli anni scorsi a fasi alterne in base ai diversi cambi di potere in Ucraina) è ormai un dato di fatto, ma i dati del 2015 davano ancora la Russia come il maggior partner commerciale:  12,7% per le esportazioni e 20% per le importazioni.

 

D’altra parte, se negli ultimi due anni si sono moltiplicati gli aiuti e i partenariati commerciali da FMI, USA e UE (l’area di libero scambio con l’Europa è entrata in vigore il 1° gennaio 2016), le turbolenze politiche e militari hanno solo aggravato una crisi economica che dura ormai da molto tempo.  

Nel 1999, la produzione dell’Ucraina era crollata a meno del 40% di quella del 1991 (ultimo anno economico prima dell’indipendenza e dello scioglimento dell’Unione Sovietica).   Dopo qualche anno di leggera ripresa, il 2009 segnò una contrazione del 15%, uno dei peggiori risultati a livello mondiale.  

Nel 2014, l’economia ha visto un calo ulteriore del 6,8%, con un tasso di inflazione del 12,1%;  nel 2015, un crollo del 10,5%, con un’inflazione al 48,7%.

 

In questi ultimi anni, le privatizzazioni hanno portato investimenti esteri e l’esplosione di alcuni settori, come la telefonia mobile, che è rapidamente arrivata alla saturazione del mercato:  135 cellulari ogni 100 abitanti.  

La percentuale di alfabetizzazione è alta (99,8%), ma lo è anche quella del lavoro minorile.   La popolazione, in un territorio così esteso, è solo il 70% di quella italiana ed ha una aspettativa di vita molto più bassa:  77 anni le donne e 67 gli uomini.

Da tempo, la scarsa regolamentazione del mondo del lavoro e il reddito insufficiente per almeno il 20% della popolazione spingono molti ad emigrare.

 

Dopo Cina e India, attualmente l’Ucraina è il terzo paese al mondo per numero di emigrati:  2 milioni di lavoratori sono all’estero stabilmente e 5 milioni in maniera temporanea.   Unendo questo dato alla bassa natalità, si stima che il paese stia rapidamente perdendo diversi milioni di abitanti.

D’altra parte, le rimesse dall’estero sono state in questi anni uno dei pochi fattori di crescita del paese:  secondo i dati ufficiali, dal 2000 al 2006 sono aumentate di 25 volte, passando da 33 a 830 milioni di dollari.

 

I lavoratori delle regioni orientali, prevalentemente ortodossi e filorussi, emigrano soprattutto verso Est, mentre dalle regioni occidentali le mete sono soprattutto ad Ovest:  per le donne, in particolare, Italia e Grecia.  

Le donne immigrate in Italia sono circa l’83% dell’intera comunità ucraina;   l’80% di loro lavora nel settore domestico o della cura delle persone;  hanno un’età media di 45 anni, sono sposate e con i figli quasi sempre rimasti in patria (anche perché il lavoro domestico non favorisce il ricongiungimento familiare).   

Oggi si stima una presenza regolare in Italia di 250mila ucraini.   Il 60% di loro (donne e uomini) ha una laurea o un diploma di scuola superiore, una percentuale più alta degli italiani, che si attestano poco sopra il 50%.

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