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GIUGNO 2015

Belle tutte le trasmissioni soprattutto quelle che trattano di Religioni orientali come ad esempio quelle con Raveri... Oltre alla bibliografia potreste anche indicare quali musiche sono trasmesse. Mi piacerebbe sapere che pezzi di Chet Baker avete trasmesso il 23  maggio....
Grazie, Paolo
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Buongiorno Gabriella, Irene, Benedetta e buongiorno a tutta la redazione,vi scrivo per condividere alcune riflessioni che mi hanno suscitato le puntate sulle città e sulle parabole del Vangelo di Luca.

Sulle città: trovo che il racconto di Babele ci parli di una diversa modalità dell’agire umano nella città e nella campagna, almeno nel tempo biblico; la campagna è popolata di pastori e contadini che operano immersi nella natura, che devono il proprio sostentamento al proprio lavoro ma anche al mondo naturale, alla pioggia, al sole, alle stagioni, alla fertilità del bestiame e della terra. Sono uomini che interagiscono col mondo naturale ma che dipendono profondamente da esso per il proprio sostentamento. Questa condizione mi pare li ponga in una posizione di maggior dipendenza e quindi anche vicinanza, a Dio. L’uomo della città opera invece al di fuori dei ritmi, dei tempi e delle “cose” proprie della natura. E’ sempre meno dipendente da Dio e si sente sempre più artefice e padrone del proprio destino. L’episodio della torre di Babele né è l’esempio: l’uomo che si elegge a divinità, che vuole competere e forse superare Dio. Mi pare che in fondo questa differenza sia la differenza della condizione umana prima e dopo il paradiso terrestre:  mangiando del frutto della conoscenza l’umanità si è posta nella condizione di pensare a se stessa, ha rinunciato alla dipendenza da Dio  e si è quindi posta al di fuori del mondo “naturale”, dalla condizione di ogni altra creatura vivente sul pianeta. La sua indipendenza da Dio le è reso sempre più difficile pensare che un Dio ci sia (e mi pare che oggi più che mai, grazie ai progressi della scienza, vediamo come la nostra capacità di essere artefici del nostro destino, di spiegare ogni cosa,  ci rendano sempre più difficile concepire il divino). Beati i poveri: la prima cosa che mi è tornata alla mente è stata la risposta che molti anni fa diede Paolo Ricca alla medesima domanda: “perché, in che modo i poveri sono  beati”. Ricordo che, con grande umiltà, Ricca rispose di non saperlo non essendo povero.  Riflettendo su questo tema mi pare che una cosa si possa comunque dire: il ricco è sicuramente “felice” ma mi pare che la sua gioia sia effimera, sia abbrezza e stordimento. Lontano dalle difficoltà e dai dolori è divenuto insensibile, anestetizzato, la sua vita è vana e vacua; non sente dolore ma nella sua gioia non c’è serenità. Il povero forse, lo dico con grande titubanza giacché nemmeno io sono povero e mi pare una mancanza di rispetto per gli ultimi parlare della loro condizione,   dicevo che il povero ha una vita con radici saldamente piantate nel concreto, che la pena e la fatica di ogni giorno diano un senso alla sua vita, senso che nella vita del ricco, quello che non riesce più a vedere il povero Lazzaro, è assente.   Spero di non essere stato prolisso, vi ringrazio per lo splendido lavoro che conducete da anni e vi porgo un augurio di una serena estate. 
Enrico Ciollaro 
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Desidero ringraziarvi per aver ricordato la figura e il pensiero di Khaled Fouad Allam. C'era sul quotidiano con il quale un tempo collaborava un breve articolo e poi mi sembra nulla, nei giorni seguenti. Eppure a me era sembrato uno studioso e un uomo di valore e intelligenza e anche una persona buona.Quanto avete detto lo conferma e mi fa dispiacere ancora di più per la sua morte.

Ancora grazie.
Giusi D'Alessandro
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Penso che sarebbe bello far arrivare un messaggio corale alle autorità dello Stato del South Carolina dal titolo ““Non uccidetelo!” E chiedo se  pensate che sia cosa sensata e come sarebbe possibile. Trasmetto i pensieri che sono venuti in mente a me.
Saluti cordiali, Maria Cristina Bartolomei

La strage di Charleston è tanto più esecranda in quanto compiuta per odio razziale, nella delirante ideologia della supremazia bianca, con l’intento di scatenare una guerra civile razziale per eliminare la componente afroamericana della popolazione e ancor più sconvolgente in quanto compiuta in un luogo di preghiera nel quale l’autore  stesso aveva sostato a lungo con i presenti. Il suo responsabile, Dylann Storm Roof, è ventunenne, poco più di un adolescente e, a quanto i media riportano, con bassa scolarizzazione e una vita segnata anche da alcool e droga. La sua criminalità e la sua responsabilità sono palesi e di estrema gravità. Altrettanto evidenti sono la gravità del suo squilibrio psichico, il suo disadattamento sociale, la sua abissale ignoranza. Ciò non impedisce che sia probabilmente condannato a morte, nonostante la splendida testimonianza dei familiari delle vittime, che hanno concesso il perdono. A parte l’obiezione radicale e di fondo contro la pena di morte in quanto tale, in qualunque caso e circostanza, in quanto prassi aberrante e disumana, in questo caso specifico tale pena sembra per più motivi particolarmente inefficace e sbagliata. Se verrà ucciso, Roof morirà convinto che l’unica forma forte e vincente di interazione umana sia la violenza, l’uccidersi. Potrà provare orrore e terrore di fronte al fatto di dover subire tale violenza, ma avrà conferma della sua folle visione: si è vittime o carnefici. Morrà anche convinto di aver avuto ragione nel diagnosticare l’avvenuta presa della egemonia da parte degli afroamericani: se un bianco viene condannato per aver eliminato delle persone che considera una minaccia per la società, è evidente che tale società è già succube, ha già rinunciato alla propria legittima supremazia. Non si tratta di sottovalutare il crimine, né di non irrogare una pena, bensì, al contrario, di applicarne una che sia veramente tale e, cioè, anche potenzialmente correttiva. A parte l’eventuale indicazione per vere e proprie cure psichiatriche - solo eventuale, però, perché è troppo facile e superficiale qualificare come ‘malato’ ogni delinquente (anche se in un certo senso lo è) e quindi non considerarlo responsabile delle sue azioni -, la vera pena per Roof sarebbe, per esempio, di ricevere durante la sua detenzione cura e assistenza (medica, psicologica ecc.) solo da personale afroamericano; di ricevere visite di ministri del culto afroamericani col dovere di ascoltarli senza comment; di ricevere istruzione da insegnanti afroamericani. Di dover insomma la sua sopravvivenza e la sua vita per anni solo a quelle persone che avrebbe voluto cancellare dal suo Paese. Se la cura riuscisse, forse potrebbe ‘morire’ il violento stragista e nascere un essere umano; se non riuscisse, sarebbe stata comunque la pena insieme più umana e più dura per il criminale che è. 
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...un caro saluto, iniziando la mia giornata.Desidero scrivere due righe, dopo aver partecipato, ieri sera, a una Veglia al Santuario del Monte, sulle alture di Genova, davanti alla Croce di Lampedusa.
Ahimè, non c’era molta gente, una sessantina di persone.Alcuni momenti sono stati molto toccanti: l’accoglienza della croce sul piazzale, davanti al panorama mozzafiato che lo sguardo coglie dalla cima del Monte sulla città di Genova, con gli avventori della “Locanda del Monte”, il Ristorante proprio attaccato al Santuario, che (immagine simbolo di quanto sta accadendo nella realtà) hanno continuato a mangiare e bere allegramente, probabilmente senza rendersi neanche conto di quello che succedeva, forse un po’ disturbati dall’arrivo di questa piccola Processione, o i canti scelti dal Coro ed eseguiti dentro la Chiesa, i “canoni” di Taizè, martellanti emozioni, o ancora i testi scritti proposti e la testimonianza di un ragazzo nigerino che è arrivato a novembre, dopo che la guerra gli aveva ucciso il padre e in casa sua si respirava solo povertà e sete di vendetta.
Emozionante, per me, è stato avvicinarmi e toccare quella croce di legno grezzo, bluastro, travi sconnesse e segnate da buchi di chiodi, di colpi, travi percosse dal destino, pregne di speranza e di morte.“Portatela ovunque” sono state le parole pronunciate da Papa Francesco nel momento in cui ha visto e benedetto la croce.Ed è proprio questo ciò che ha motivato il passaggio a Genova di questa croce, anche se forse l’iniziativa meritava più pubblicità, più presenze.O forse no: anche il non fare notizia, il calcolo diplomatico di chi preferisce la sordina per non disturbare la vita di ogni giorno, il timore che davanti a questa croce si sovverta la tranquillità e si debbano affrontare contestazioni, scandali, opposizioni, anche tutto questo forse è dentro la logica della croce.
Dopo ieri sera resta ancora una responsabilità davvero “eversiva”, e affascinante: tocca a me, a chi ieri sera c’era, a chiunque si dice “cristiano”, creare le premesse perché dalla croce si passi alla risurrezione.E in questo non importa quanti si è: Uno solo, duemila anni fa, quella croce l’ha trasformata per sempre in segno di vita.Si deve solo raccogliere questa sfida.I
CARE, buona giornata: cuore e preghiera ti/vi sono vicini.
 

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