Roberto Abbado: Berio, Rendering - Beethoven, Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra. M.J.Pires pianoforte

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Roberto Abbado direttore
    Maria João Pires pianoforte

     

    Franz Schubert (1797 - 1828) - Luciano Berio (1925 - 2003)
    Rendering (1828 - 1989/90)

    Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
    Concerto n. 2 in si bemolle maggiore op. 19 per pianoforte e orchestra (1795/98)

    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Franz Schubert - Luciano Berio
    Rendering

    Allegro
    [Andante]
    [III. -]

    Se ascoltate Radio3, Rendering la conoscete: è l'identificativo di rete" e dunque viene usata, in estratto, per ricordarvi che siete all'ascolto del terzo canale di Radio Rai. Non a caso: Radio3 si sforza ogni giorno di coniugare passato e presente e questo lavoro di Berio, composto tra il 1989 e il 1990 per l'orchestra del Concertgebouw di Amsterdam, è uno degli esempi più riusciti di come la contemporaneità possa declinare in modo nuovo la musica della tradizione. "Erano anni che mi veniva chiesto, da varie parti, di fare "qualcosa" con Schubert - spiegava Berio nelle proprie note alla partitura - e non ho mai avuto difficoltà a resistere a quell'invito tanto gentile quanto ingombrante. Fino al momento, però, in cui ricevetti copia degli appunti che il trentunenne Franz andava accumulando nelle ultime settimane di vita in vista di una Decima Sinfonia in re maggiore (D 936a). Si tratta di appunti di notevole complessità e di grande bellezza: costituiscono un segno ulteriore delle nuove strade, non più beethoveniane, che lo Schubert delle sinfonie stava già percorrendo. Sedotto da quegli schizzi, decisi dunque di restaurarli: restaurarli e non ricostruirli". L'idea non era intatti quella di completare la Sinfonia come Schubert stesso avrebbe potuto farlo, seguendo una pratica musicologica che Berio aborriva. Il gioco consisteva nell'orchestrare gli appunti e nell'inventare un tessuto connettivo tra uno schizzo e l'altro, creando una serie di passaggi di collegamento - intessuti di reminiscenze dell'ultimo Schubert (la Sonata in si bemolle per pianoforte, il Trio in si bemolle) e segnalati ogni volta dal suono della celesta - che fossero simili ai cemento o all'intonaco nudo che viene usato negli interstizi quando si restaura un affresco lacunoso.

    "Gli schizzi, redatti da Schubert in forma quasi pianistica, recano saltuarie indicazioni strumentali ma sono talvolta stenografici - spiegava ancora Berio. Ho dovuto quindi completarli, soprattutto nelle parti intermedie e nel basso. La loro orchestrazione non ha posto problemi particolari. Ho usato l'organico orchestrale dell'Incompiuta e nel primo movimento ho cercato di salvaguardare un ovvio colore schubertiano. Ma non sempre. Ci sono brevi episodi della sviluppo musicale che sembrano porgere la mano a Mendelssohn e l’orchestrazione naturalmente ne prende atto. Infine il clima espressivo del secondo movimento è stupefacente: sembra abitato dallo spirito di Mahler". Nascosto tra le pieghe della partitura, c'è poi un altro dettaglio che Berio amava svelare. "Negli ultimi giorni della sua vita Schubert prendeva lezioni di contrappunto. La carta da musica era cara e scarsa, ed è forse per questo che, mescolato agli schizzi della Decima Sinfonia, si trova un breve ed elementare esercizio di contrappunto (un canone per moto contrario). Non ho potuto fare a meno di orchestrare anche quello e di assimilarlo allo stupefacente percorso dell'Andante". Come ha ricordato Oreste Bossini, "Rendering in inglese ha un duplice significato. In primo luogo indica l'atto di restituire a qualcuno qualcosa che gli appartiene in qualche modo di diritto. Rendere grazie, rendere un servizio, rendere onore a qualcuno. Il secondo significato si divarica a sua volta in due corni, entrambi suggestivi. Nella direzione dello spettacolo significa interpretare, restituire alla vita un testo per il pubblico, incarnando la parola per un attore e creando il suono per un musicista. Nell'ambito della scrittura, invece, il termine sta per tradurre, portare un intero mondo da una lingua all'altra, renderlo comprensibile. Berio si perde, felice, in questo labirinto di significati, che il suo lavoro amorevole e geniale su Schubert racchiude e comprende tutti, in un vorticoso rispecchiarsi d'intelligenza tra il passato e il presente, che forse indica anche il cammino per la modernità futura".

    Nicola Campogrande
    (dagli archivi Rai)

     

    Ludwig van Beethoven
    Concerto n. 2 in si bemolle maggiore op. 19 per pianoforte e orchestra

    Allegro con brio
    Adagio
    Rondò. Allegro

    Risale al 1794 la stesura del Concerto in si bemolle maggiore. Beethoven aveva ventiquattro anni, ma da tempo stava lavorando in profondità sulle risorse espressive del pianoforte; fu lui il primo compositore ad archiviare definitivamente in cantina clavicembali, clavicordi e spinette. Fin da giovanissimo aveva manifestato una grande attenzione per le tecniche costruttive, che proprio in quegli anni stavano contribuendo ad aumentare la sonorità e la versatilità dello strumento. «Si può far cantare il pianoforte», scrisse proprio intorno al 1794, alludendo a una ricerca timbrica che si può toccare con mano in ogni pagina delle sue prime sonate per pianoforte. Non a caso il Concerto in si bemolle, dopo essere stato eseguito per la prima volta il 29 marzo del 1795 al Burgtheater di Vienna con Beethoven al pianoforte, fu rimaneggiato fino al 1801, quando venne pubblicato come opus 19; motivo per cui, pur essendo nato prima del Concerto in do maggiore op. 15, da sempre viene considerato il secondo lavoro del corpus. L’esposizione del Concerto in si bemolle rivela la stessa esigenza di rinnovamento formale, che si legge anche nelle coeve sonate op. 10. Nel momento in cui ci si aspetterebbe l’apparizione del secondo soggetto, l’orchestra improvvisamente modula verso un ambito totalmente inaspettato, iniziando ad elaborare alcuni spunti del primo tema; proprio come se la forma fosse già approdata alla sezione dedicata allo sviluppo. L’intervento del pianoforte è altrettanto ricco di ambiguità: a presentarsi è un nuovo tema, mai citato nel corso dell’introduzione orchestrale. L’idea era già stata sperimentata da Mozart nel Concerto in re minore KV 466, lavoro che lascia alcune tracce anche nel dialogo tra solista e insieme orchestrale. Mentre nessuna eco settecentesca prende forma nella cadenza solistica, scritta dallo stesso Beethoven nel 1809, quasi quindici anni dopo la prima stesura del Concerto. La voglia di far cantare il pianoforte emerge nel secondo movimento, dove si fa largo un tema lineare e rassicurante come una parola materna; ma al centro della scena non c’è solo il pianoforte, perché l’orchestra assume un ruolo dialogante, capace di dare spessore emotivo alle riflessioni del solista: nell’apparizione del flauto che chiude il movimento si avvertono già i toni bucolici della Sinfonia Pastorale. La prima versione del Concerto in si bemolle terminava con un Rondò dal sapore spiccatamente mozartiano, che Beethoven decise di sostituire in un secondo momento (il brano apparve come pezzo sciolto nel 1825 in una versione rimaneggiata da Carl Czerny). Il movimento che venne pubblicato nel 1801 si allinea meglio alla fisionomia degli altri finali beethoveniani: un tema tutto ironia si combina con una serie di episodi estremamente variegati che non disdegnano alcune inflessioni zingaresche.

    Andrea Malvano
    (dagli archivi Rai)

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