[an error occurred while processing this directive]

Le cose finiscono

Recensione - Le novità editoriali

libri rete edizioni R.E.M. Facebook Bob Dylan Celine Paolo Volponi Eugenio Montale Keith Emerson Famiglia Cristiana

Non solo in Usa la notizia del giorno è lo scioglimento del gruppo rock dei Rem. Le cose finiscono, ha ricordato il cantante Michael Stipe. Ancora da quelle parti: tenuto a New York il Summit sull’hardware aperto (?) dove dopo il software, spiegano gli organizzatori, è la volta di macchinari e utensili costruiti in nome del così detto open source (dalle stampanti in 3d alle barche a vela automatizzate). Ne ignoriamo la ragione ma proviamo paura. Nonostante il recente rapporto McKinsey informi in che in 15 anni ci sono stati ben 700mila nuovi occupati grazie alla Rete, noi diamo più retta a Eli Pariser, che nel suo libro “The Internet Bubble” avverte gli utenti delle strategie aziendali organizzate a loro insaputa sul Web, attraverso il giochino delle informazioni «su misura»; intanto che Christopher Johnson in “Microstyle” riprende la tradizione degli aforismi e cita perfino Duchamp per insegnare a comunicare velocemente nell’era del messaggio breve – li esortano ad andare veloci, mai nessuno  si interroghi se hanno la patente!

Ma la crisi non arriva in Rete. Così almeno riporta La Stampa del 9 settembre, annunciando Facebook raddoppia gli utili. Lo sbarco in borsa è previsto per il 2012 mentre nei primi sei mesi dell’anno corrente i ricavi sono stati di 1,6 miliardi di dollari. Yahoo nel frattempo scarica l’amministratore delegato Carol Bartz con una buonascita di 10 milioni di dollari: Bartz l’ha presa bene. Noi almeno ci abbiamo provato e la pagina su Facebook l’abbiamo chiusa dopo un assedio durato ventiquattro di acclarate stupiddagini. Amici contati col pallottiere, scambiati come le raccolte dei calciatori, oppure deportati a seconda delle dinamiche. A metà tra Telethon, figurine Panini e ammucchiata, Facebook annuncia l’amicizia al tempo dei Social Network è richiesta. E se uno si facesse pagare? E’ evidente le cretinate non sono quotate in borsa e nemmeno la solitudine che diventerà il business del futuro. Una volta sui cuori infranti ci facevano le canzoni e i cantanti erano confidenziali: il dolore è sempre stato un business. Ma la gente si rincorreva per le città scrivendo sui muri, come in quel vecchio racconto di Cortazar nella Buenos Aires dei Colonelli. Oggi bisogna effettuare una ricarica prima di trovare coraggio. Rimbaud diceva di non essere al mondo ed era scappato in Africa su un battello. Però con questo mondo dobbiamo farci i conti, allora l’obiettivo minimo è prendere il tram con un pò di decoro.

Il regista teatrale Bob Wilson dichiara al Corriere del 15 settembre: «Mi concentro sul futuro. Che ne sarà delle librerie? Saranno centri di ispirazione, l’uomo avrà sempre bisogno di riunirsi». Piace la rinnovata richiesta di partecipazione, così come l’immagine offerta dal filosofo Felix Duque che su L’Unità del 16 settembre ci spiega le città sono nate per nostalgia: la nostalgia di qualcosa di perduto già da sempre. Fa da sponda la notizia proveniente da San Cesarea Terme, nel Salento, dove il Comune riconosce di non avere i soldi per acquisire la casa di famiglia di Carmelo Bene, un’antica dimora saracena da tempo sotto sequestro. La sorella lancia un appello. E appelli appaioni i pensieri, bellissimi, di Sergio Solmi, di cui Adelphi conclude la pubblicazione dell’opera, come rammenta Mario Andrea Rigoni sul Corriere del 18 settembre. Di giorno Solmi era direttore dell’uffico legale della Banca Commerciale. La sera poeta. Annotava ogni volta bisogna ripartire da zero. Il monito è ripreso da Javier Martin, editorialista de El Pais che dichiara in un pezzo ripreso dal settimanale Internazionale nel numero del 16 settembre: la letteratura elettronica è una nuova forma d’arte che non ha niente a che fare con l’ebook. Permette di fondere tutto, senza gerarchia tra le arti. Speriamo ne esca fuori qualcosa, conforta sapere da qualche parte non ci sia ordine.

La Stampa del 15 settembre, in margine al festival “Pordenonelegge”, segnala la nascita di “Roland, laboratorio di scritture emergenti”. Dietro c’è Giorgio Vasta che nell’editoriale dice una cosa interessante, e cioé che la pubblicazione oggi è vista come un diritto e non come una possibilità. Vasta è stato uno dei fondatori di TQ, il gruppo di scrittori Trenta/Quaratenni del quale al momento si sono perse le tracce. Però d’estate hanno fatto comodo: bisogna riconoscerlo. Repubblica dell’11 agosto ci aiuta finalemente a comprendere i termini della Grande Crisi, spiegando il significato di Spread, Double Dip, Downgrading e Default: poveri ma informati. Invece il Messaggero offre tre spunti: Oliviero La Stella scrive il 9 agosto narrare l’economia è la nuova sfida degli scrittori italiani, e cita il maestro della letteratura industriale Paolo Volponi fino al recente successo di Edoardo Nesi; il 18 lo stesso mese Luca Ricci dice che autori come Scurati, Mancassola e Desiati tornano a parlare di realtà, ma una realtà che a sua volta in mancanza di meglio si ispira alla televisone diventando indistinguibile da essa; infino lo stesso Luca Ricci il 18 settembre sui libripanettoni (Faletti, Volo etc.) dichiara sono da regalare ma non da leggere. Storditi dall’informazione non le diamo più retta, come i passaggeri di un aereo che leggono il giornale della sera mentre le hostess informano come svignarsela in caso di pericolo. Poi lo ripetono e quelli continuano a non alzare lo sguardo, però la seconda volta in inglese. Il Corriere del 10 agosto, a firma di Cesare Segre, riflette sull’irresistibile declino della critica, sulla perdita di prestigio della letteratura e sull’eliminazione del concetto di autore. Gli fa eco Il Sole 24 Ore del 28 agosto che rintocca, a cura di Matteo Di Gesù, le campane a morto per critica e narrativa insieme. Citiamo: occorre approfittare di questi riposizionamenti e di queste ibridazioni del sapere per rinnovare l’esercizio dell’analisi e la ricostruzione di parametri etici indispensabili. Suona bene. Chissà perché viene in mente a scuola la cosa più bella era la campanella. Poi da adulto ti manca tanto e non sai più come uscirne.

Ispirati i profili di Eugenio Montale firmati nel 1952 da Indro Montanelli e nel 1961 da Dino Buzzatti, entrambi riportati da Il Foglio del 12 settembre. Il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara ci ricorda il paese moriva trent’anni fa. Ma i media hanno altro di cui occuparsi in una società di guardoni come la nostra. Così sempre Il Foglio rende loro omaggio o li prende per il culo, è da verificare. Il 27 agosto investigando, grazie a Fabiana Giacomotti, sulla ceretta integrale: che è un mondo. E il 12 settembre, in un articolo di smisurata prospettiva firmato da Gabriella Sassone e pubblicato originariamente da Eva Tremila, sui vip più dotati. La media nazionale d atempo si è attestata sui 15 centimetri. Fate voi. Ci soccorre Serena Grandi che cita D’Annunzio ed afferma: non lungo che sfondi / non largo che otturi / ma duro che duri. Almeno in Francia, ci ricorda ancora su Il Foglio Emanuele Trevi il 17 settembre in un articolo così e così, si scontrano se celebrare o meno Louis-Ferdinand Céline, l’autore de “Viaggio al termine della notte” accusato di simpatie naziste. La nazione ne prova vergogna ma quello resta un gigante, creato da Dio per dare scandalo. Interessante invece quanto succede a Londra, dove il quotidiano The Guardian insieme allla prestigiosa London School Of Economics (che ha esperienza di queste faccende: cinquanta anni fa ci studiava Mick Jagger) annuncia il progetto “Reading The Riots”. Una ricerca sulle rivolte di quest’estate divisa in tre fasi: inteviste ai partecipanti degi scontri con la polizia, «data base» dei profili delle oltre 2000 persone fermate dalle forze dell’ordine, analisi dei 2500 Sms inviati nei giorni dei saccheggi. Una mutazione antropologica che deriva, secondo gli studiosi, dalla assenza di futuro. Per molti pure il presente è un ricordo. Peggio in Turchia dove la censura vieta la stampa di “Snuff” di Chuck Palahniuk, nel quale una donna racconta di avere avuto consecutivamente 600 uomini in una stanza: uno alla volta, in fila indiana, chiavi in mano. 

Inaspettatamente la prima di Cultura del Messaggero del 4 settembre apre al mito di Bob Dylan, attuale grazie una raccolta di saggi di Greil Marcus pubblicata ora da Odoya. Uscito un anno fa in Usa, con solitaria segnalazione di Sara Antonelli su L’Unità, il libro ribadisce la necessità dell’arte (qui è Dylan il testimone) e la necessità ancora più urgente di ricevere parole nuove: da un libro, come in questo caso, oppure da un amico, da uno schermo finalmente, dalla politica infine, dall’amore. Marcus lo scoprimmo vent’anni fa con “Tracce di rossetto” (ristampato dallo stesso Odoya). Metteva insieme Dadaismo e hit-parade, scovava link tra i fiori del male del Novecento, compresi i Sex Pistols, con il pretesto della ribellione. Era visonario, esagerato, persino ingenuo ripensandoci; ma almeno metteva il naso fuori rispetto al giornalismo di settore, ripetitivo come un ritornello. Sul testo, a metà degli anni Novanta, organizzammo un seminario con Mario Perniola e al termine un ragazzo prese la parola e chiese cosa pensassimo di Amedeo Minghi, di cui Perniola (beato lui!) ignorava l’esistenza (Perniola ignorava anche l’esistenza della Juventus e ad una cena con Giampiero Mughini questi lo guardò com se improvvisamente in soggiorno fosse entrato E.T.). Lo studente aggiunse il seminario glielo aveva ricordato e in fondo aveva ragione. Si chiama libero arbitrio: tu li parli di Baudelaire e loro lo associano a Minghi. Decidemmo di piantarla quando al termine di un altro seminario, quella volta dedicato alla musica d’avanguadia, un tale prese la parola e disse non capiva perché alla radio non passassero più i Rondò Veneziano. Al bar della facoltà con Perniola dividemmo un chinotto e quello fu tutto. Siamo rimasti in buoni rapporti.

Marcus ce lo presentarono anni dopo. Lui piantò in asso la sua interprete, che non la prese bene pure perché era la figlia del suo editore italiano, e si invaghì della nostra interprete, una parecchio tenebrosa, e non ci diede più retta: rapito. Poi intervistammo Keith Emerson, che oggi ci ricordiamo in quindici, solo che lui ebbe addirittura una storiella con la nostra interprete fino a perdere la testa e peggio ancora il portamonete al termine di una cena al ghetto dove reggemmo il moccolo mangiando 21 arancini e coraggiosamente bevendo a temperatura ambiente vino bianco delle grotte di Frisio con cubetti di ghiaccio, e questo perché la cucina aveva chiuso e al cuoco importava poco ci fosse una rockstar degli anni Settanta pronto per l’accopiamento. Il mattino dopo l’interprete ci informò l’assolto amoroso di Keith, nella notte, non era andato a buon fine. Ma dopo un’overdose di supplì chiunque avrebbe avuto difficoltà e l’ex-leader degli Emerson, Lake and Palmer – meglio noto in Italia per la sigla anni Settanta di “Odeon” – ripiegò su un riposino: in musica si chiama fuga. Così decidemmo di cambiare interprete e lei rispose ne avrebbe parlato con Padre Pio. Sì perché era molto religiosa ed era la sua rigogliosa spiritualità che colpiva i nostri ospiti, a parte l’apertura di vedute. Noi invece a causa dei suoi accidenti (pensiamo infatti Padre Pio avesse altro da fare che mandarci ramengo) ci beccammo il fuoco di S. Antonio e al posto del dottore, che era ad Avezzano dai parenti, chiamammo la portiera che ci fece un impacco con due confezioni di uova e così per mezzora diventammo una omelette. Se fossimo stati a New York sarebbe stata una performance. Invece la signora era di San Lorenzo Scalo e disse rammentava quando i portieri leggevano a voce alta romanzi d’appendice e gli inquilini di sopra ascoltavano, mentre le bande suonavano le arie d’opera. Piangemmo insieme al ricordo di un paese più civile, travolti dal fetore dei tuorli. Sulle caricature musicali opportuna l’intervista di Roberta Scorranese sul Corriere del 13 settembre a Francesco Bianconi, leader dei devastanti Baustelle. Il cantante vuol far bella figura e cita in ordine sparso misticismo, calcio, nichilismo e lotta di classe. Poi si ferma perché finisce lo spazio, per fortuna. Ma non ha pietà di noi e pubblica persino un romanzo, “Il regno animale” per Mondadori, che ancora il Corriere segnala il 20 settembre (è chiaro al Corriere devono aver terminato i libri da recensire) in un pezzo firmato da Alessandro Beretta, educato nel prendere le distanze. Non è a Milano che dicono: pasticciere fai il tuo mestiere? Meglio le confessioni di Edoardo Sanguineti in “Conversazioni musicali” per Melangolo. Dice preferiva gli Stones ai Beatles. Sempre nel pop comprensibile lo stupore di Antonello Catacchio del Manifesto e Paolo Calcagno de L’unità quando in un’intervista, ripresa da tutti e due i quotidiani il 17 settembre, a Jonathan Demme (“Il silenzio degli Innocenti”, “Philadelphia”) il regista risponde, riguardo i progetti futuri, di avere intenzione girare un film su Enzo Avitabile. Come sia apparso dagli anni Ottanta il nome di Avitabile sull’agenda di Jonathan Demme resta un mistero paragonabile alla Madonna di Fatima. Eppure Totò l’aveva detto: i napoletani all’estero si sono sempre piazzati.

Conosciamo Simon Reynolds, di cui Isbn stampa mano a mano l’opera completa che ora approda al nostalgico “Retromania”, e che è uno molto reputato presso gli appassionati del genere. I rockettari sono brava gente e visti da vicino ricordano i generali napoleonici (così come li descriveva Conrad ne “I duellanti” e poi Ridley Scott nell’omonimo film) che messi al confino bevevano anisette parlando dei vecchi tempi, quando Bonaparte era qualcuno e se li portava in tour per mezza Europa. Ci adeguiamo al canone e gli rendiamo omaggio anche noi, in un misto di ammirazione e provincialismo: sembra il passaggio del Rex in “Amarcord”. Ne soffriremo sempre. Un collega in imperbiabile (auspicabile sotto fosse in canottiera, perché si moriva dal caldo) ci squadra come fossimo rappresentanti della Girmi. Apartheid rock. Reynolds appare sovrappeso e questo ce lo rende simpatico perché nel loro campo la pancetta non è prevista, ma è anche un dritto perché è del tutto escluso dai nuovi movimenti (e a Dario Zonta su L’Unità del 20 settembre sotto sotto lo fa intendere) eppure i suoi libri sembrano nuovi di zecca, anche se incagliati tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, ed egli si muove come se fosse in grado di predire il futuro. Mica scemo. Malaticcio come tutti gli anglosassoni racconta di aver appena mangiato spaghetti allo scoglio, tuttavia non ha ben chiaro la faccenda dello scoglio, e parla fluentemente in una bellissima lingua che si chiama inglese e che noi temiamo di non capire ma ci appare assai ispirato; e poi ci innamoriamo immediatamente dell’ufficio stampa e le domandiamo di dov’è e lei risponde di Como, così immaginiamo un paio di Aperol in darsena col golf sulle spalle e una gita sul lungo lago in cerca di ristorantini economici con vista panoramica prima di essere presentati a mammà; poi la ragazza completa la frase e dice di essere anche sarda e allora ci torna in mente la telecronaca di Inghilterra-Olanda a Cagliari durante i Mondiali ’90, quando chiesero a Brera se non temesse scontri tra le due tifoserie e lui: l’importante è che non si incazzino i sardi. L’incontro con Reynolds ci trasmette alcuni messaggi. Siamo orfani di episodi che accadono sempre nel passato. Il passato è un investimento, ma per molti è anche un rifugio. Allora i rifugi diventano affari. Ed è evidente qualcuno ha aperto un ufficio nei nostri ricordi. Non c’è più distinzione tra le cose. Fa lo stesso che Umberto Eco annunci su Repubblica del 5 settembre la versione riveduta de “Il nome della rosa”, pubblicato la prima volta nel 1980 e di nuovo in libreria ad ottobre o forse più in là («L’esperienza mi è piaciuta – ha affermato – ora nel tempo libero rivedrò anche gli altri romanzi»: già che c’è!); e che in America reclamizzino l’uscita in 9 dischi in alta definizione e audio multicanale (forse nel box previsto anche un rinfresco) di “Guerre Stellari”, intanto che il regista George Lucas esprime la volontà di convertire in 3d l’intera saga. Ci chiediamo qual è la differenza tra le due notizie? Non c’è differenza e forse non c’è nemmeno la notizia. Invece le nostre giornate avrebbero bisogno della differenza; poiché essa ci ricorda siamo nati non solo per arrivare a fine giornata, ma anche per capire qualcosa della vita e se possibile pure per godercela.    

Ecco perchè risultano commoventi le lettere contenute ne “Il limite” (Laterza) dove Antonio Sciortino, Direttore di “Famiglia Cristiana”, raccoglie una parte della corrispondenza dei lettori, che raccontano delle loro vite e soprattutto reclamano un po’ di decenza per il nostro tempo. Le loro testimonianze ricordano si dovrebbe fare comunicazione per dare ascolto agli altri. Il fatto è che prima bisogna trovargli, questi altri, perché il dramma è che improvvisamente si è perso il pubblico. Non se ne discute per timore ma è il problema del futuro e il mondo dei media, così come lo concepiamo oggi, diventerà un binario morto. Ne sarà travolto e la politica non potrà farci niente, a parte creare nuovi incarichi del tipo Direttore della postazione multimediale dei rapporti con l’esterno e responsabile del palinseto assoluto con delega di capo-struttura con mobilio al seguito per realazioni multimediali e amministratore delegato dei miei stivali e partecipazione in quota come consigliere nel Cda con all’ordine del giorno Se funziona passiamo alla storia, prima però passiamo alla cassa. I dirigenti del futuro, per riprendere un detto francese, saranno dei capo-stazione senza fischietto. Oppure un poliziotto senza manganello, come una vota dicevano tra loro le donne quando il partner faceva cilecca. La fine è nota. L’unica speranza è tornare al muto. Meglio rammentare con grafia tremante in ospedale Pier Vittorio Tondelli, la notte prima di morire a 36 anni, annotò: «La letteratura non salva, mai. Tanto meno l’innocente. L’unica cosa che salva è la fede, l’amore, e la ricaduta (che è come il temporale) della Grazia». Lo cita Padre Antonio Spadaro, nuovo Direttore de “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuti. Padre Spadaro ascolta Bruce Springsteen, legge Kerouac ed ha creato il progetto “Bomba Carta”, una delle prime esperienze di scrittura creativa su Internet. Del resto anche Dio ha fatto tutto dal nulla. Ma ricorda un proverbio africano: dopo Dio c’è il seno.


A cura di Vittorio Castelnuovo
Non solo in Usa la notizia del giorno è lo scioglimento del gruppo rock dei Rem. Le cose finiscono, ha

ricordato il cantante Michael Stipe. Ancora da quelle parti: tenuto a New York il Summit sull’hardware aperto

(?) dove dopo il software, spiegano gli organizzatori, è la volta di macchinari e utensili costruiti in nome

del così detto open source (dalle stampanti in 3d alle barche a vela automatizzate). Ne ignoriamo la ragione ma

proviamo paura. Nonostante il recente rapporto McKinsey informi in che in 15 anni ci sono stati ben 700mila

nuovi occupati grazie alla Rete, noi diamo più retta a Eli Pariser, che nel suo libro “The Internet Bubble”

avverte gli utenti delle strategie aziendali organizzate a loro insaputa sul Web, attraverso il giochino delle

informazioni «su misura»; intanto che Christopher Johnson in “Microstyle” riprende la tradizione degli aforismi

e cita perfino Duchamp per insegnare a comunicare velocemente nell’era del messaggio breve – li esortano ad

andare veloci, mai nessuno  si interroghi se hanno la patente!

Ma la crisi non arriva in Rete. Così almeno riporta La Stampa del 9 settembre, annunciando Facebook raddoppia

gli utili. Lo sbarco in borsa è previsto per il 2012 mentre nei primi sei mesi dell’anno corrente i ricavi sono

stati di 1,6 miliardi di dollari. Yahoo nel frattempo scarica l’amministratore delegato Carol Bartz con una

buonascita di 10 milioni di dollari: Bartz l’ha presa bene. Noi almeno ci abbiamo provato e la pagina su

Facebook l’abbiamo chiusa dopo un assedio durato ventiquattro di acclarate stupiddagini. Amici contati col

pallottiere, scambiati come le raccolte dei calciatori, oppure deportati a seconda delle dinamiche. A metà tra

Telethon, figurine Panini e ammucchiata, Facebook annuncia l’amicizia al tempo dei Social Network è richiesta.

E se uno si facesse pagare? E’ evidente le cretinate non sono quotate in borsa e nemmeno la solitudine che

diventerà il business del futuro. Una volta sui cuori infranti ci facevano le canzoni e i cantanti erano

confidenziali: il dolore è sempre stato un business. Ma la gente si rincorreva per le città scrivendo sui muri,

come in quel vecchio racconto di Cortazar nella Buenos Aires dei Colonelli. Oggi bisogna effettuare una

ricarica prima di trovare coraggio. Rimbaud diceva di non essere al mondo ed era scappato in Africa su un

battello. Però con questo mondo dobbiamo farci i conti, allora l’obiettivo minimo è prendere il tram con un pò

di decoro.

Il regista teatrale Bob Wilson dichiara al Corriere del 15 settembre: «Mi concentro sul futuro. Che ne sarà

delle librerie? Saranno centri di ispirazione, l’uomo avrà sempre bisogno di riunirsi». Piace la rinnovata

richiesta di partecipazione, così come l’immagine offerta dal filosofo Felix Duque che su L’Unità del 16

settembre ci spiega le città sono nate per nostalgia: la nostalgia di qualcosa di perduto già da sempre. Fa da

sponda la notizia proveniente da San Cesarea Terme, nel Salento, dove il Comune riconosce di non avere i soldi

per acquisire la casa di famiglia di Carmelo Bene, un’antica dimora saracena da tempo sotto sequestro. La

sorella lancia un appello. E appelli appaioni i pensieri, bellissimi, di Sergio Solmi, di cui Adelphi conclude

la pubblicazione dell’opera, come rammenta Mario Andrea Rigoni sul Corriere del 18 settembre. Di giorno Solmi

era direttore dell’uffico legale della Banca Commerciale. La sera poeta. Annotava ogni volta bisogna ripartire

da zero. Il monito è ripreso da Javier Martin, editorialista de El Pais che dichiara in un pezzo ripreso dal

settimanale Internazionale nel numero del 16 settembre: la letteratura elettronica è una nuova forma d’arte che

non ha niente a che fare con l’ebook. Permette di fondere tutto, senza gerarchia tra le arti. Speriamo ne esca

fuori qualcosa, conforta sapere da qualche parte non ci sia ordine.

La Stampa del 15 settembre, in margine al festival “Pordenonelegge”, segnala la nascita di “Roland, laboratorio

di scritture emergenti”. Dietro c’è Giorgio Vasta che nell’editoriale dice una cosa interessante, e cioé che la

pubblicazione oggi è vista come un diritto e non come una possibilità. Vasta è stato uno dei fondatori di TQ,

il gruppo di scrittori Trenta/Quaratenni del quale al momento si sono perse le tracce. Però d’estate hanno

fatto comodo: bisogna riconoscerlo. Repubblica dell’11 agosto ci aiuta finalemente a comprendere i termini

della Grande Crisi, spiegando il significato di Spread, Double Dip, Downgrading e Default: poveri ma informati.

Invece il Messaggero offre tre spunti: Oliviero La Stella scrive il 9 agosto narrare l’economia è la nuova

sfida degli scrittori italiani, e cita il maestro della letteratura industriale Paolo Volponi fino al recente

successo di Edoardo Nesi; il 18 lo stesso mese Luca Ricci dice che autori come Scurati, Mancassola e Desiati

tornano a parlare di realtà, ma una realtà che a sua volta in mancanza di meglio si ispira alla televisone

diventando indistinguibile da essa; infino lo stesso Luca Ricci il 18 settembre sui libripanettoni (Faletti,

Volo etc.) dichiara sono da regalare ma non da leggere. Storditi dall’informazione non le diamo più retta, come

i passaggeri di un aereo che leggono il giornale della sera mentre le hostess informano come svignarsela in

caso di pericolo. Poi lo ripetono e quelli continuano a non alzare lo sguardo, però la seconda volta in

inglese. Il Corriere del 10 agosto, a firma di Cesare Segre, riflette sull’irresistibile declino della critica,

sulla perdita di prestigio della letteratura e sull’eliminazione del concetto di autore. Gli fa eco Il Sole 24

Ore del 28 agosto che rintocca, a cura di Matteo Di Gesù, le campane a morto per critica e narrativa insieme.

Citiamo: occorre approfittare di questi riposizionamenti e di queste ibridazioni del sapere per rinnovare

l’esercizio dell’analisi e la ricostruzione di parametri etici indispensabili. Suona bene. Chissà perché viene

in mente a scuola la cosa più bella era la campanella. Poi da adulto ti manca tanto e non sai più come uscirne.

Ispirati i profili di Eugenio Montale firmati nel 1952 da Indro Montanelli e nel 1961 da Dino Buzzatti,

entrambi riportati da Il Foglio del 12 settembre. Il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara ci ricorda il paese

moriva trent’anni fa. Ma i media hanno altro di cui occuparsi in una società di guardoni come la nostra. Così

sempre Il Foglio rende loro omaggio o li prende per il culo, è da verificare. Il 27 agosto investigando, grazie

a Fabiana Giacomotti, sulla ceretta integrale: che è un mondo. E il 12 settembre, in un articolo di smisurata

prospettiva firmato da Gabriella Sassone e pubblicato originariamente da Eva Tremila, sui vip più dotati. La

media nazionale d atempo si è attestata sui 15 centimetri. Fate voi. Ci soccorre Serena Grandi che cita

D’Annunzio ed afferma: non lungo che sfondi / non largo che otturi / ma duro che duri. Almeno in Francia, ci

ricorda ancora su Il Foglio Emanuele Trevi il 17 settembre in un articolo così e così, si scontrano se

celebrare o meno Louis-Ferdinand Céline, l’autore de “Viaggio al termine della notte” accusato di simpatie

naziste. La nazione ne prova vergogna ma quello resta un gigante, creato da Dio per dare scandalo. Interessante

invece quanto succede a Londra, dove il quotidiano The Guardian insieme allla prestigiosa London School Of

Economics (che ha esperienza di queste faccende: cinquanta anni fa ci studiava Mick Jagger) annuncia il

progetto “Reading The Riots”. Una ricerca sulle rivolte di quest’estate divisa in tre fasi: inteviste ai

partecipanti degi scontri con la polizia, «data base» dei profili delle oltre 2000 persone fermate dalle forze

dell’ordine, analisi dei 2500 Sms inviati nei giorni dei saccheggi. Una mutazione antropologica che deriva,

secondo gli studiosi, dalla assenza di futuro. Per molti pure il presente è un ricordo. Peggio in Turchia dove

la censura vieta la stampa di “Snuff” di Chuck Palahniuk, nel quale una donna racconta di avere avuto

consecutivamente 600 uomini in una stanza: uno alla volta, in fila indiana, chiavi in mano. 

Inaspettatamente la prima di Cultura del Messaggero del 4 settembre apre al mito di Bob Dylan, attuale grazie

una raccolta di saggi di Greil Marcus pubblicata ora da Odoya. Uscito un anno fa in Usa, con solitaria

segnalazione di Sara Antonelli su L’Unità, il libro ribadisce la necessità dell’arte (qui è Dylan il testimone)

e la necessità ancora più urgente di ricevere parole nuove: da un libro, come in questo caso, oppure da un

amico, da uno schermo finalmente, dalla politica infine, dall’amore. Marcus lo scoprimmo vent’anni fa con

“Tracce di rossetto” (ristampato dallo stesso Odoya). Metteva insieme Dadaismo e hit-parade, scovava link tra i

fiori del male del Novecento, compresi i Sex Pistols, con il pretesto della ribellione. Era visonario,

esagerato, persino ingenuo ripensandoci; ma almeno metteva il naso fuori rispetto al giornalismo di settore,

ripetitivo come un ritornello. Sul testo, a metà degli anni Novanta, organizzammo un seminario con Mario

Perniola e al termine un ragazzo prese la parola e chiese cosa pensassimo di Amedeo Minghi, di cui Perniola

(beato lui!) ignorava l’esistenza (Perniola ignorava anche l’esistenza della Juventus e ad una cena con

Giampiero Mughini questi lo guardò com se improvvisamente in soggiorno fosse entrato E.T.). Lo studente

aggiunse il seminario glielo aveva ricordato e in fondo aveva ragione. Si chiama libero arbitrio: tu li parli

di Baudelaire e loro lo associano a Minghi. Decidemmo di piantarla quando al termine di un altro seminario,

quella volta dedicato alla musica d’avanguadia, un tale prese la parola e disse non capiva perché alla radio

non passassero più i Rondò Veneziano. Al bar della facoltà con Perniola dividemmo un chinotto e quello fu

tutto. Siamo rimasti in buoni rapporti.

Marcus ce lo presentarono anni dopo. Lui piantò in asso la sua interprete, che non la prese bene pure perché

era la figlia del suo editore italiano, e si invaghì della nostra interprete, una parecchio tenebrosa, e non ci

diede più retta: rapito. Poi intervistammo Keith Emerson, che oggi ci ricordiamo in quindici, solo che lui ebbe

addirittura una storiella con la nostra interprete fino a perdere la testa e peggio ancora il portamonete al

termine di una cena al ghetto dove reggemmo il moccolo mangiando 21 arancini e coraggiosamente bevendo a

temperatura ambiente vino bianco delle grotte di Frisio con cubetti di ghiaccio, e questo perché la cucina

aveva chiuso e al cuoco importava poco ci fosse una rockstar degli anni Settanta pronto per l’accopiamento. Il

mattino dopo l’interprete ci informò l’assolto amoroso di Keith, nella notte, non era andato a buon fine. Ma

dopo un’overdose di supplì chiunque avrebbe avuto difficoltà e l’ex-leader degli Emerson, Lake and Palmer –

meglio noto in Italia per la sigla anni Settanta di “Odeon” – ripiegò su un riposino: in musica si chiama fuga.

Così decidemmo di cambiare interprete e lei rispose ne avrebbe parlato con Padre Pio. Sì perché era molto

religiosa ed era la sua rigogliosa spiritualità che colpiva i nostri ospiti, a parte l’apertura di vedute. Noi

invece a causa dei suoi accidenti (pensiamo infatti Padre Pio avesse altro da fare che mandarci ramengo) ci

beccammo il fuoco di S. Antonio e al posto del dottore, che era ad Avezzano dai parenti, chiamammo la portiera

che ci fece un impacco con due confezioni di uova e così per mezzora diventammo una omelette. Se fossimo stati

a New York sarebbe stata una performance. Invece la signora era di San Lorenzo Scalo e disse rammentava quando

i portieri leggevano a voce alta romanzi d’appendice e gli inquilini di sopra ascoltavano, mentre le bande

suonavano le arie d’opera. Piangemmo insieme al ricordo di un paese più civile, travolti dal fetore dei tuorli.

Sulle caricature musicali opportuna l’intervista di Roberta Scorranese sul Corriere del 13 settembre a

Francesco Bianconi, leader dei devastanti Baustelle. Il cantante vuol far bella figura e cita in ordine sparso

misticismo, calcio, nichilismo e lotta di classe. Poi si ferma perché finisce lo spazio, per fortuna. Ma non ha

pietà di noi e pubblica persino un romanzo, “Il regno animale” per Mondadori, che ancora il Corriere segnala il

20 settembre (è chiaro al Corriere devono aver terminato i libri da recensire) in un pezzo firmato da

Alessandro Beretta, educato nel prendere le distanze. Non è a Milano che dicono: pasticciere fai il tuo

mestiere? Meglio le confessioni di Edoardo Sanguineti in “Conversazioni musicali” per Melangolo. Dice preferiva

gli Stones ai Beatles. Sempre nel pop comprensibile lo stupore di Antonello Catacchio del Manifesto e Paolo

Calcagno de L’unità quando in un’intervista, ripresa da tutti e due i quotidiani il 17 settembre, a Jonathan

Demme (“Il silenzio degli Innocenti”, “Philadelphia”) il regista risponde, riguardo i progetti futuri, di avere

intenzione girare un film su Enzo Avitabile. Come sia apparso dagli anni Ottanta il nome di Avitabile

sull’agenda di Jonathan Demme resta un mistero paragonabile alla Madonna di Fatima. Eppure Totò l’aveva detto:

i napoletani all’estero si sono sempre piazzati.

Conosciamo Simon Reynolds, di cui Isbn stampa mano a mano l’opera completa che ora approda al nostalgico

“Retromania”, e che è uno molto reputato presso gli appassionati del genere. I rockettari sono brava gente e

visti da vicino ricordano i generali napoleonici (così come li descriveva Conrad ne “I duellanti” e poi Ridley

Scott nell’omonimo film) che messi al confino bevevano anisette parlando dei vecchi tempi, quando Bonaparte era

qualcuno e se li portava in tour per mezza Europa. Ci adeguiamo al canone e gli rendiamo omaggio anche noi, in

un misto di ammirazione e provincialismo: sembra il passaggio del Rex in “Amarcord”. Ne soffriremo sempre. Un

collega in imperbiabile (auspicabile sotto fosse in canottiera, perché si moriva dal caldo) ci squadra come

fossimo rappresentanti della Girmi. Apartheid rock. Reynolds appare sovrappeso e questo ce lo rende simpatico

perché nel loro campo la pancetta non è prevista, ma è anche un dritto perché è del tutto escluso dai nuovi

movimenti (e a Dario Zonta su L’Unità del 20 settembre sotto sotto lo fa intendere) eppure i suoi libri

sembrano nuovi di zecca, anche se incagliati tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, ed egli si muove come se

fosse in grado di predire il futuro. Mica scemo. Malaticcio come tutti gli anglosassoni racconta di aver appena

mangiato spaghetti allo scoglio, tuttavia non ha ben chiaro la faccenda dello scoglio, e parla fluentemente in

una bellissima lingua che si chiama inglese e che noi temiamo di non capire ma ci appare assai ispirato; e poi

ci innamoriamo immediatamente dell’ufficio stampa e le domandiamo di dov’è e lei risponde di Como, così

immaginiamo un paio di Aperol in darsena col golf sulle spalle e una gita sul lungo lago in cerca di

ristorantini economici con vista panoramica prima di essere presentati a mammà; poi la ragazza completa la

frase e dice di essere anche sarda e allora ci torna in mente la telecronaca di Inghilterra-Olanda a Cagliari

durante i Mondiali ’90, quando chiesero a Brera se non temesse scontri tra le due tifoserie e lui: l’importante

è che non si incazzino i sardi. L’incontro con Reynolds ci trasmette alcuni messaggi. Siamo orfani di episodi

che accadono sempre nel passato. Il passato è un investimento, ma per molti è anche un rifugio. Allora i rifugi

diventano affari. Ed è evidente qualcuno ha aperto un ufficio nei nostri ricordi. Non c’è più distinzione tra

le cose. Fa lo stesso che Umberto Eco annunci su Repubblica del 5 settembre la versione riveduta de “Il nome

della rosa”, pubblicato la prima volta nel 1980 e di nuovo in libreria ad ottobre o forse più in là

(«L’esperienza mi è piaciuta – ha affermato – ora nel tempo libero rivedrò anche gli altri romanzi»: già che

c’è!); e che in America reclamizzino l’uscita in 9 dischi in alta definizione e audio multicanale (forse nel

box previsto anche un rinfresco) di “Guerre Stellari”, intanto che il regista George Lucas esprime la volontà

di convertire in 3d l’intera saga. Ci chiediamo qual è la differenza tra le due notizie? Non c’è differenza e

forse non c’è nemmeno la notizia. Invece le nostre giornate avrebbero bisogno della differenza; poiché essa ci

ricorda siamo nati non solo per arrivare a fine giornata, ma anche per capire qualcosa della vita e se

possibile pure per godercela.    

Ecco perchè risultano commoventi le lettere contenute ne “Il limite” (Laterza) dove Antonio Sciortino,

Direttore di “Famiglia Cristiana”, raccoglie una parte della corrispondenza dei lettori, che raccontano delle

loro vite e soprattutto reclamano un po’ di decenza per il nostro tempo. Le loro testimonianze ricordano si

dovrebbe fare comunicazione per dare ascolto agli altri. Il fatto è che prima bisogna trovargli, questi altri,

perché il dramma è che improvvisamente si è perso il pubblico. Non se ne discute per timore ma è il problema

del futuro e il mondo dei media, così come lo concepiamo oggi, diventerà un binario morto. Ne sarà travolto e

la politica non potrà farci niente, a parte creare nuovi incarichi del tipo Direttore della postazione

multimediale dei rapporti con l’esterno e responsabile del palinseto assoluto con delega di capo-struttura con

mobilio al seguito per realazioni multimediali e amministratore delegato dei miei stivali e partecipazione in

quota come consigliere nel Cda con all’ordine del giorno Se funziona passiamo alla storia, prima però passiamo

alla cassa. I dirigenti del futuro, per riprendere un detto francese, saranno dei capo-stazione senza

fischietto. Oppure un poliziotto senza manganello, come una vota dicevano tra loro le donne quando il partner

faceva cilecca. La fine è nota. L’unica speranza è tornare al muto. Meglio rammentare con grafia tremante in

ospedale Pier Vittorio Tondelli, la notte prima di morire a 36 anni, annotò: «La letteratura non salva, mai.

Tanto meno l’innocente. L’unica cosa che salva è la fede, l’amore, e la ricaduta (che è come il temporale)

della Grazia». Lo cita Padre Antonio Spadaro, nuovo Direttore de “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuti.

Padre Spadaro ascolta Bruce Springsteen, legge Kerouac ed ha creato il progetto “Bomba Carta”, una delle prime

esperienze di scrittura creativa su Internet. Del resto anche Dio ha fatto tutto dal nulla. Ma ricorda un

proverbio africano: dopo Dio c’è il seno.




[an error occurred while processing this directive]