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La buonanotte

domenica 20 ottobre

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    Il Maradona che ho conosciuto alla fine degli anni Ottanta era più bravo a giocare che a vivere. O forse solo quando giocava sembrava vivere davvero. La storia che voglio raccontarvi parla proprio di uno di quei momenti lì.
    Era il mezzogiorno di un sabato, alla vigilia di qualche partita importante, e Maradona, tanto per cambiare, non si era presentato agli allenamenti per tutta la settimana. Il povero addetto stampa del Napoli aveva esaurito la scorta di bugie: la foratura della gomma, la visita medica, l’influenza contagiosa. Il giovedì, proprio quando lo davano a letto con 40 di febbre, era stato beccato in discoteca  nel cuore della notte con un bottiglia vuota di champagne in equilibrio precario sulla testa.
    Ma il sabato mattina Maradona arrivò al campo di allenamento.  Ovviamente in ritardo, scortato dal consueto cespuglio di microfoni e taccuini.  Uno dei taccuini lo tenevo in mano io, inviato ventottenne di un grande giornale del nord e quindi già solo per questo sospettabile di pregiudizi negativi nei suoi confronti. In realtà quel genio del bene e del male mi stava simpatico come un fratello matto. Forse perché, nonostante fosse strafottente e distruttivo, in mezzo a tanti manichini sembrava quasi una persona.
    Quel sabato, dunque, al termine dell’allenamento, Maradona non seguì i compagni negli spogliatoi, ma rimase sul campo per allestire uno spettacolo destinato ai giornalisti. Dribbling tra i birilli e palleggi. Era il suo modo di vendicarsi di noi. Scrivevamo ogni giorno che era finito, che non si reggeva in piedi? Ebbene, guardatemi, sembrava dire. Guardatemi e tacete.
    A un certo punto esagerò. Sistemò il pallone sulla linea di fondo campo. Ma non all’altezza della bandierina del calcio d’angolo: da lì sono buoni tutti (insomma…). Lui la mise molto più vicino alla porta: nel punto in cui la linea di fondo interseca l’area piccola del portiere.
    Da lì la porta non riesci a vederla neanche se sei strabico. Puoi vedere solo la parte esterna del palo, ma è talmente vicina che ti sembra un muro: fare gol da quella posizione non è difficile. È impossibile. Bisognerebbe violare una ventina di leggi fisiche. Colpire il pallone con un tiro che a metà del suo breve tragitto si pieghi verso l’esterno per evitare il palo e poi, ma immediatamente, compia una conversione di novanta per infilarsi in porta.
    Maradona calciò il pallone e lo infilò in porta. Non una ma cinque volte. Perché si capisse che non era stato un caso.
    Io lo guardavo a bocca aperta, e non ero il solo. Seduto a bordo campo, in adorazione, c’era un ragazzo delle squadre giovanili del Napoli. Era stato lui a passare a Maradona i cinque palloni che uno dopo l’altro quel satanasso aveva messo sulla linea di fondo campo e da lì in rete.
    Pensando di non averci ancora umiliato abbastanza, Maradona scavalcò la rete di recinzione che lo separava dai giornalisti e ci raggiunse. Appena si accorse che dalla tasca di un mio collega spuntava un mandarino, glielo chiese in prestito. Se lo appiccicò al piede sinistro e cominciò a palleggiare per cinque, dieci, venti minuti. Tutto il tempo dell’intervista. Rispondeva alle domande e intanto il mandarino andava su e giù, come se fosse attaccato a un cordino invisibile.
    A un certo punto sentimmo dei latrati provenire dal campo. Era il ragazzino delle squadre giovanili che da venti minuti stava provando a imitare il famoso tiro dalla linea di fondo. Ma i suoi tentativi morivano tutti regolarmente contro il palo: questo spiegava i latrati di disperazione. Fu allora che Maradona, con un ultimo colpo di tacco, parcheggiò in terra il mandarino e tornò in campo. Si avvicino al ragazzo e gli disse: Non ti preoccupare, alla tua età non ci riuscivo nemmeno io. Adesso ti insegno”. Il più famoso calciatore del mondo si inginocchiò davanti al ragazzino, gli afferrò un piede e lo accostò al pallone in un certo modo: “Ecco, devi colpire proprio qui.”
    Poi, come se niente fosse, tornò in mezzo a noi, risuscitò il mandarino e ricominciò a parlare e a palleggiare. Finché fummo interrotti da un urlo bestiale: Goool.
    Alla fine il ragazzino ce l’aveva fatta. Era stato davvero bravo e tenace, perché il talento, se non si appoggia al carattere, conta meno di zero.
    Quel ragazzino si chiamava Gianfranco Zola e un giorno anche lui sarebbe stato in grado di insegnare a un altro ragazzino il colpo segreto di Maradona.
    Una settimana intrisa di rabbia e rassegnazione come quella che ci lasciamo alle spalle meritava un congedo all’insegna della speranza. Una storia capace di ricordarci che alla fine tutto andrà bene. E se non va bene è solo perché non è ancora la fine. Buonanotte.

    P.S. Mi si fa giustamente notare che all’epoca di questo episodio Zola non faceva parte delle giovanili, ma era una giovane riserva della prima squadra. Mi ha ingannato il ricordo di averlo visto giocare per la prima volta nella Primavera del Napoli come fuoriquota (aveva 23 anni). Ma non credo che questo lieve scarto temporale (23 anni anziché 18-20) procuratomi dalla memoria modifichi la veridicità e il senso della storia che si svolse sotto i miei occhi.
    Rispondo anche a chi si è irritato nel vedere un personaggio “maledetto” come Maradona portato a esempio positivo. Il Maradona del mio racconto è il calciatore, non l’uomo. O meglio - lo scrivo nelle prime righe - l’uomo che veniva fuori soltanto quando faceva il calciatore. I grandi campioni, come gli eroi dei poemi epici, rimangono nel nostro immaginario per i loro comportamenti sul campo di gioco o di battaglia. Non roviniamoci quel poco di purezza che i gesti sportivi riescono ancora talvolta a trasmetterci. Il mio Maradona è solo un grande calciatore, fuori dal mondo e dal tempo. Il resto, in questa sede, non mi interessa.

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