Dima Slobodeniouk: Prokof’ev Sinfonia n.7

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Dima Slobodeniouk direttore

     

    Sergej Prokof'ev (1891 - 1953)
    Sinfonia n. 7 in do diesis minore op. 131 (1952)
    Moderato – Meno mosso (poco) – Tempo I
    Allegretto – Allegro – Più mosso – Poco più espressivo – Tempo I
    – Allegro – Meno allegro – Più animato
    Andante espressivo
    Vivace – Poco meno – Moderato marcato – Tempo I – Più lento
    – Vivace I

     

    Sergej Prokof'ev
    Sinfonia n. 7 in do diesis minore op. 131
    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Sergej Prokof’ev morì nella sua casa a Mosca per un’emorragia cerebrale il 5 marzo del 1953, circa quaranta minuti dopo la morte di Stalin. Il violoncellista Mstislav Rostropovič, uno dei pochi amici che lo avevano sostenuto negli ultimi anni, resi difficili dalla malattia cardiaca e dai problemi economici, disse che ≪tutto il paese piangeva Stalin e nessuno sapeva che era morto Prokof’ev≫.

    Questo beffardo evento sembra essere una metafora del rapporto controverso che Prokof’ev ebbe con la madrepatria per tutta la vita. Bambino prodigio al pianoforte e brillante studente del Conservatorio di San Pietroburgo, a ventisette anni fu costretto all’esilio volontario viaggiando tra l’America e l’Europa a causa della scomoda situazione politica in cui versava la Russia dopo la Prima Guerra Mondiale. Al suo definitivo ritorno in patria, nel 1936, la pressione della censura del regime sovietico di Stalin era intollerabile quanto una morsa stretta alla testa. Andrei Ždanov, segretario del Comitato Centrale, controllava che le creazioni artistiche degli intellettuali non fuoriuscissero dai dettami consentiti; con lo stesso criterio l’Unione dei Compositori approvava o cassava le opere dei musicisti. L’animo “ribelle” di Prokof’ev, portato alla sperimentazione musicale, fu spesso tacciato di "deviazioni formalistiche e tendenze antidemocratiche" e molte sue composizioni non videro mai la luce.

    La Sinfonia n. 7 in do diesis minore op. 131 nacque in questo clima nel 1951-52. Composta per un canale radiofonico dedicato ai bambini, l’ultima sinfonia di Prokof’ev sembra sprizzare gioia da quelle melodie orecchiabili, spesso accompagnate da campane, triangolo e xilofono, che anche il popolo russo poteva canticchiare. Ma allo stesso tempo cela una vena malinconica; la stessa con cui, alla fine della vita, si “riavvolge il nastro” guardando indietro alla gioventù andata.
    La semplicità della composizione e la fruibilità immediata, caratteristiche che combaciavano con l’ideale sovietico, gli valsero l’approvazione di Dmitrij Kabalevskij, eminenza grigia dell’Unione dei Compositori. Nonostante tutto Kabalevskij raccontò che Prokof’ev era preoccupato che si fraintendesse il senso dell’opera: ≪la musica non è troppo semplice?≫ chiedeva. Temeva per la direzione che aveva preso la sua arte, condizionata dall’establishment sovietico. Ma il compositore era stanco di lottare, e accettò persino la propostadi aggiungere un’energica coda dal carattere ottimistico all’ultimo movimento,grazie alla quale fu assegnato alla sinfonia il Premio Lenin nel 1957.

    La Settima Sinfonia venne eseguita l’11 ottobre 1952 alla Sala delle Colonne di Mosca, sotto la direzione di Samuil Samosud, amico intimo del compositore.
    Quella sera un Prokof’ev ammalato e affaticato apparve per l’ultima volta in pubblico. Il collega Dmitrij Šostakovič, che era presente al concerto, gli scrisse in una lettera d’elogio: ≪La Settima Sinfonia si rivela per essere un’opera nobile, di profonda sensibilità e frutto di un immenso talento. È veramente un’opera superba.≫ Della morte di Prokof’ev si dice ancora che il suo corpo rimase bloccato in casa per giorni senza poter essere trasportato alla sala dell’Unione dei Compositori e poi al cimitero; il motivo era la vicinanza con la maestosa Sala delle Colonne dove la folla si recava, intralciando le strade, per dare l’estremo saluto alla salma di Stalin.


    Irene Sala

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