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Giallo Materano
"Le voci della Pietra"





  • 1° - Ci arrivò la sera tardi, dopo un viaggio che gli era sembrato molto più lungo di quello che era stato in realtà. Guidare gli piaceva, ma quella volta gli aveva messo addosso una strana inquietudine. Chilometri e chilometri senza incrociare anima viva, la tarda sera di un giorno feriale in mezzo all’anno; nessuno. Non una stazione di servizio, non qualcuno che accedesse da una via traversa, non un’utilitaria lenta da sorpassare. E la strada, poi; dissestata, difficile, piena di deviazioni; persino alcune crepe nell’asfalto, e la vegetazione che invadeva al di sopra e sotto le strisce di metallo opaco che segnavano il tracciato. A un certo punto, in prossimità dell’uscita, aveva superato un trattore che impegnava la corsia di destra, marciando a passo d’uomo. Alla guida un tizio con un cappello di paglia, che si era voltato a guardarlo malevolo, come se stesse decidendo se sopportare l’invasione di quella moderna auto blu o mettersi a sparargli con un vecchio fucile da caccia. Gli aveva dato i brividi, quello sguardo. Ora però che si era sistemato in albergo e che aveva cenato, si sentiva decisamente meglio. La città era carina, pulita e ordinata, pochi negozi ma parecchi bar e ritrovi, gruppi di ragazzi che ridevano e parlavano in un dialetto incomprensibile ma musicale. Camminò pigramente lungo il corso nell’aria dolce, le mani in tasca, per respirare l’atmosfera del posto. Così, quella sarebbe stata la capitale europea della cultura. Certo era isolata, in mezzo allo stivale e resa irraggiungibile da decenni di sudditanza di quella regione al grande nord delle infrastrutture e delle arterie vitali del Paese; ma quel luogo era intrigante, profondamente vero e dotato di un’esclusiva bellezza. !2 Si fermò nei pressi del belvedere, e rimase senza fiato. Le piccole luci gialle sparse ovunque facevano sembrare un presepe immenso quella che era stata la città antica. I Sassi. Eccoli là. Meravigliosi. Ai suoi occhi di esperto architetto, specializzato nelle ristrutturazioni degli immobili storici con mantenimento dell’aspetto originario, la distesa di abitazioni, luoghi di ritrovo, chiese, stalle scavati all’interno del fianco della montagna pareva un Paradiso. Il fatto che, come aveva letto, quel posto era stato definito da un leader di partito “vergogna nazionale” era per lui un’ulteriore dimostrazione di quanto i politici fossero ignoranti. Sospirò profondamente, sorridendo. Non vedeva l’ora che venisse l’indomani mattina, quando il geometra gli avrebbe fatto da guida per inoltrarsi in quel dedalo meraviglioso di viuzze, vicoli e rampe fino al luogo che avrebbero ristrutturato. Avrebbe creato, se lo sentiva, il più originale, straordinario e articolato albergo diffuso d’Italia; e sarebbe stato fantastico sentire di aver partecipato alla costruzione di una vera capitale culturale mondiale, non solo europea. Altro che vergogna nazionale. Chiuse gli occhi, nel silenzio della notte. Gli parve di sentire il mormorio delle generazioni che erano passate in quelle case. Io vi rispetterò, gli disse. Farò in modo che nulla cambi, nel panorama che si vede da qui. Si fregò le mani e se ne tornò in albergo. Non vedeva l’ora di cominciare. Tu lo sai. Io ti ho amato. Ti ho amato tanto. Mi ricordo come fosse adesso, quando arrivavi da lontano, con quella tua camminata atletica, lo sguardo alto, i capelli che ti ondeggiavano nel vento. Quanto mi piacevi. Eri così bello. Mi pareva assurdo che ti fossi piaciuta proprio io, insignificante come ero, una bambina viziata di città. Chissà cosa ti interessava di me. A volte sentivo i tuoi occhi addosso, mentre facevo altro; e non mi voltavo per incrociare il tuo sguardo. Ero consapevole che nella tua mente c’erano zone in cui non potevo entrare, che volevi tenere per te; e che comunque non avrei capito. Eravamo così diversi. Non ti chiedevo niente, tu niente mi dicevi. Il fantasma del silenzio che poi ci avrebbe circondato, che ci avrebbe sommerso piano come una marea notturna, buia e muta, cominciava ad aggirarsi attorno a noi già allora, quando cominciavamo ad annusarci, a capire chi saremmo stati l’uno per l’altra. Dovevo capire. Dovevo sapere. La colpa non è stata tua, sai: è stata solo mia. Perché io dovevo capire. Papà? Papà, mi senti? Lo so, non vuoi che io alzi la voce. Non vuoi nemmeno sentirla, la mia voce. Una volta, ricordi, me lo dicesti perfino, che il mio tono ti infastidiva, che ti distraeva dai tuoi pensieri. Me la ricordo fin da quando ero piccola, questa sensazione. Le volte che eri a casa, e io dovevo smettere di giocare, di guardare la televisione, di ascoltare musica. Ricordo gli occhi della mamma, spalancati di terrore, una muta richiesta di comprensione, forse di aiuto. Stai zitta, mi supplicava. Zitta. E io tacevo, per lei e per me, per non sentire sulla pelle il bruciante dolore della tua cinghia, per non dover sperimentare la terribile combinazione della tua faccia priva di espressione, del tuo sguardo vuoto e della sofferenza delle ferite sulla schiena. Mi ascolti, papà? Mi senti?

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