[an error occurred while processing this directive]
[an error occurred while processing this directive]

una notte all'opera

Alessandro Baricco racconta

Stavano registrando la puntata speciale dedicata alla musica classica, lì da Fazio, e io aspettavo il mio turno. Vagavo per i corridoi, dietro le quinte, guardando: perché lì, sotto il cofano della televisione, è tutto un motore assurdo, un viavai di uomini proiettile e donne cannone. Magari è gente anche buona, non sto a giudicare, ma è un circo, questo va detto. Di solito è così. E a un certo punto vedo arrivare dal fondo del corridoio un uomo vestito giusto, con un passo un po' da fratello Marx, e uno sguardo da indovino. Aveva l'aria di cercare qualcosa. Guardo bene, ed era Maurizio Pollini. Nessuno è obbligato a saperlo, ma lui è uno dei quattro, cinque migliori pianisti viventi. Avrò assistito in vita mia a una decina di suoi concerti: non ricordo di aver mai ascoltato una sua parola, in simili circostanze, ma non solo: non ricordo neanche una sua espressione, una faccia, che tradisse qualcosa, un sentimento, un messaggio da far arrivare in platea. Era di un rigore assoluto: era le note che suonava e nient'altro. Lo stesso suo modo di suonare era una gara a cancellare ogni traccia di passaggio umano: non c'erano imperfezioni nelle sue dita, né apparenti concessioni all'estro del momento: snocciolava note come teoremi, e anche Chopin sembrava la deduzione geometrica da un movimento del cuore. Riassumendo, era la quintessenza del vate inaccessibile: certificava una religione dagli altari lontani, e riservati. Adesso eccolo lì, tra uomini proiettile e donne cannone. Poco dopo mi son trovato a guardare su un monitor Claudio Abbado che dirigeva in mezzo alle telecamere, davanti a un pubblico forzatamente miserello e in nulla dissimile da quelli di un qualsiasi talk show. Con fare mite e splendidamente infantile, se ne stava poi a chiacchierare coi suoi amici Barenboim e Pollini, cercando invano di farsi dare del tu da Fazio, e raccontando di suo nonno, che gli aveva insegnato il piacere delle rivoluzioni. Nessuno è obbligato a saperlo, ma lui è uno dei due più grandi direttori d'orchestra viventi. Ci sono tre o quattro podi nel pianeta su cui quando sali sei dio: lui c' è salito e sceso, con una certa noncuranza, e sempre senza lo spreco di una sola parola. Adesso eccolo lì, microfonato e inseguito dalle luci rosse delle telecamere. Di per sé uno potrebbe anche prenderla male: il crepuscolo degli dei, si potrebbe anche pensare. Ma mentre li guardavo, lì sul video, mi sembrava di capire che invece non c'era nulla che somigliasse a una disfatta, nel loro modo di stare lì: c'era solo il senso, stupefacente, di una tregua. Accadeva tutto in una specie di terra di nessuno: sia loro sia la televisione avevano accettato di uscire dalle proprie trincee, e adesso erano lì, in una terra di nessuno, a presentarsi. Poi forse mi sbaglio, ma mi preme dire questo: quel terreno aperto è l’unico terreno che possa generare la cultura in televisione. Nulla è fattibile senza che escano tutti dalle loro trincee. Gli uomini di cultura giù dai loro piedistalli, la televisione via dal suo ottuso egocentrismo. Se il punto di incontro non è lì in mezzo, il risultato è sempre quello di trasmissioni insopportabilmente noiose o uomini di cultura indegnamente mortificati. È difficile trovare quel punto? No. Ho visto Pollini al trucco e i telecameramen con gli occhi lucidi quando Abbado è salito sul podio. Fazio non ha reputato indispensabile chiedere ad Abbado cosa pensa di Muti, e Abbado non ha preteso di portare le telecamere in teatro, ma è andato lui in studio. Piccole cose semplici. Nessun eroismo, direi, solo la saggia disponibilità a mollare qualche spanna di terreno per generare uno spazio diverso, dove incontrarsi. Non sembra francamente una cosa così difficile. Basterebbe la volontà di farlo. Basterebbe accorgersi della voglia che tutti si avrebbe di farlo. Il resto è artigianato, intelligenza, cura: la normale prassi di un lavoro ben fatto. La normalità. Se decidessimo mai di esercitarla, questa normalità, ciò che potremmo ottenere è qualcosa di molto sottile, che erroneamente identifichiamo con il termine "divulgazione", il nome che diamo al gesto di rendere semplici cose complesse. Naturalmente divulgare è una cosa che la televisione può fare: ma è molto meno di quello che potrebbe fare. La televisione ha un suo tratto popolare, infantile, e ludico: ha un suo modo di illuminare le cose che non necessariamente significa tradurle in volgare, spesso è semplicemente un certo modo di illuminarle. Quel tipo di luce è, per gli intellettuali, inedito e spiazzante: ma è una luce, non una violenza. Intervistando Pollini, l'altro giorno, Fazio a un certo punto ha staccato, tra mille prudenze, una bella domanda: come mai l'arte contemporanea ci piace e invece con la musica contemporanea facciamo una fatica tremenda? La vedete la luce? È come le domande dei bambini. Non c'entra nulla con il rendere semplici cose complesse: c'entra con il Candide di Voltaire, con un candore che vede il cuore semplice delle cose complesse. La televisione è lì per fare quelle domande. Noi intellettuali dovremmo essere lì per pronunciare una qualche risposta. Poi ognuno torna nella sua trincea a tessere la propria tela, ma intanto ogni tregua è un'ora rubata alla guerra, e a una separazione che non fa bene a nessuno.
Alessandro Baricco, La Repubblica, 5 dicembre 2009

[an error occurred while processing this directive]