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Paolo Borsellino

25 anni fa

Il pomeriggio del 19 luglio del 1992, 25 anni fa, una domenica, una fortissima esplosione uccise il magistrato Paolo Borsellino e cinque persone della sua scorta appena arrivate in via D’Amelio a Palermo, dove abitava la madre che Borsellino stava andando a trovare: morirono Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Antonino Vullo fu l’unica persona della scorta di Borsellino a sopravvivere: stava ancora parcheggiando la macchina quando l’esplosione la sbalzò via, e fu gravemente ferito.

Paolo Borsellino aveva 52 anni. Aveva una scorta numerosa perché era uno dei magistrati più importanti del “pool antimafia” di Palermo, e perché due mesi prima era stato ucciso il suo amico e collega Giovanni Falcone, il magistrato più importante e noto di quel gruppo. Insieme, tra le altre cose, avevano svolto le indagini che avevano portato al famoso “maxiprocesso” del 1986, un processo storico nelle inchieste contro la mafia per il numero e l’importanza dei condannati e delle accuse contestate, e le cui sentenze erano state confermate dalla Cassazione all’inizio del 1992. Falcone era stato ucciso insieme a sua moglie e a tre uomini della scorta in un attentato che aveva fatto saltare in aria le loro automobili in autostrada a Capaci, vicino a Palermo, il 23 maggio 1992.

L’uccisione di Falcone e di Borsellino in un tempo così ravvicinato ha unito definitivamente e drammaticamente le loro storie, e le due stragi sono rimaste come il momento di massima violenza simbolica mafiosa in Italia, ma anche di massimo valore simbolico per l’indignazione e la protesta contro la mafia. L’importanza dei due attentati nella storia della mafia siciliana è aumentata dalla successione mai vista di attentati indiscriminati fuori dalla Sicilia che ci fu nei due anni successivi: a Milano, a Firenze, a Roma. Attentati che ancora oggi sono al centro di inchieste, processi, polemiche violente, misteri: ricondotti storicamente alla ascesa di un clan mafioso “dei corleonesi” guidato dal boss Salvatore Riina (in carcere dal 1993) e alla sua intenzione di un attacco contro lo Stato, nel quale obiettivi e connivenze non sono ancora stati chiariticon completezza.

Quanto alla strage del 19 luglio 1992, si sono conclusi fino a oggi quattro processi, più uno di revisione che ha assolto nei giorni scorsi i condannati del primo, ingiustamente accusati dalle false confessioni estorte ad un “collaboratore di giustizia” e avallate con ormai dimostrata leggerezza da molti magistrati. Le sentenze dei processi successivi hanno sancito che l’attentato sia stato compiuto facendo esplodere con un telecomando una Fiat 126 carica di esplosivo e parcheggiata in via D’Amelio (anche se ci sono ancora dubbi e obiezioni anche su questa ricostruzione da parte di alcuni avvocati). Lo scoppio – l’esplosivo proveniva da depositi di residuati bellici a cui la mafia attinse in quella e altre occasioni – fu fortissimo, incendiò decine di macchine e danneggiò i palazzi della strada. A essere condannati successivamente sono stati gli organizzatori ed esecutori dell’attentato e i boss mafiosi che avevano deciso o avallato l’attentato.

Il contesto e le implicazioni della strage di via D’Amelio, e le storture delle indagini, sono raccontati qui da un articolo di Enrico Deaglio. Questa è un’intervista che Borsellino diede a due giornalisti francesi per un reportage televisivo. Altre storie e documenti sulle indagini sono qui, raccolte per queste ragioni.

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