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MARZO 2016

Gentile Uomini & Profeti,
purtroppo il terrorismo islamico non ferma la sua mano assassina. Ho studiato anni or sono a Sana’a, la capitale dello Yemen, lingua e cultura araba. Parlando con alcune persone del luogo, già allora mi avvertivano che, elargendo noi a piene mani libertà e diritti senza esigere il rispetto delle regole e dei doveri in un doppio contesto culturale tanto divergente sulla visione del mondo, e dove le minoranze radicali rivendicavano pratiche e valori incompatibili con la democrazia, ci saremmo scontrati con un’unica autorità, custode e interprete della Sharia, che avrebbe rifiutato la laicità dello stato e dichiarato guerra all’intero nostro sistema di valori. Già 2500 anni fa, ci siamo formati su un pensiero filosofico-scientifico, e non su una classe sacerdotale come in altre civiltà: per noi il giudizio è un metodo di conoscenza che interroga noi stessi e gli altri, non sempre ben disposti ad accettarlo. C’è inoltre il senso di colpa per gli affari occidentali con i paesi arabi che hanno contribuito a finanziare la Jihad, e tra le tante guerre coloniali, anche le ultime, giustificate come “esportatrici di democrazia”. Con questo, credo che noi non siamo abbastanza consapevoli di ciò che abbiamo costruito. Già anni fa, avevo proposto al Comune di Modena, mia città di nascita, di affiancare all’insegnamento dell’italiano anche un video con la storia delle lotte contadine, operaie, studentesche, delle donne e di tutto il sangue e i sacrifici che queste hanno preteso perché sappiano che la sanità, la scuola, i trasporti, la nettezza urbana e ogni forma d’assistenza organizzata provengono da questa fonte sacrificale. Mia madre era una contadina a mezzadria col padrone, e viveva in una famiglia allargata in provincia di Reggio Emilia. Mi raccontava che, al tempo, capitava di morire di fatica insieme agli animali da soma, soprattutto quando scavarono terrazzamenti per impiantare nuovi vitigni. Questo ha consentivo a me e a mia sorella di avere una maggiore istruzione e una vita meno faticosa. La famiglia materna, premiata nel 1974 dall’allora Presidente Giovanni Leone per meriti umanitari, curò per  99 anni lo stesso podere, e diede ospitalità ininterrottamente a chiunque ne avesse bisogno. Mia madre mi disse che ogni sera, soprattutto dal 1943 al 1945, venivano così tante persone alla ricerca di cibo e di un letto al loro casolare, da temere di non poterle sfamare e sistemare tutte. Mio zio, Guglielmo Filippini, mandava i bambini a cercare uova che le galline potevano aver deposto fuori dal nido, dall’orto si raccoglievano verdure di stagione, da un orcio cotiche di maiale, da un sacco offerto dal fornaio pagnotte di pane duro. La zuppa che ne usciva, era distribuita agli ospiti e tutti furono sfamati e alloggiati. Mia madre mi avvertì che la condivisione del poco che diventava tanto, era frutto dell’amore e non della ricchezza. La straordinaria generosità di questa famiglia, che diede ospitalità per un significativo periodo di tempo anche a una coppia di ebrei e a diversi partigiani, fu punita da un manipolo di tedeschi che si presentarono una notte con concrete minacce di morte. Queste furono convertite nell’occupazione stabile della casa con le cucine da campo dei tedeschi, grazie all’intercessione di mio padre che, avendo fatto l’operaio in Germania per sei anni, era stato in grado di masticare la loro lingua e di convincerli a questo scambio. Le cucine furono messe sotto due grandi querce che abbellivano la corte del casolare, per proteggerle dalla vista di Pippo, l’aviatore bombardiere. Mio zio si prodigò anche per questi “nemici”, che ne riconobbero la giustizia, tanto che nella primavera del 1945, promisero di tornare a trovarlo se fossero riusciti a superare indenni il Po. Mia madre, che era brava con l’ago, poco prima della loro partenza si chinò a cucire l’orlo dei calzoni di un capo tedesco che, nello smontare parti della cucina, se lo era strappato. Portò ovunque questa eredità spirituale, non giudicando mai nessuno. Ospitò e sostenne un uomo messo alla gogna dalla comunità per reati commessi, prestò i risparmi a una parente che si diceva in stato di bisogno, per poi non restituirli una volta ripresasi: lei non ne accennò mai, se non credo, dolersene segretamente solo per il fatto di avere privato noi di un qualche bene. Non posso fare a meno di confrontare questo modo di guardare alla vita rispetto all’etica utilitaristica che ci pervade, e dove si affermano solo fini economici e individuali. Osservo come questa “mutazione” ci indebolisca, esponendoci a eccessivi compromessi rispetto a una necessaria autorevolezza identitaria, complice la contrapposizione politica generata non dalla natura del problema di turno, ma dal consenso e dal vantaggio elettorale che ne può derivare. Ci dividiamo sul terrorismo tra i “buoni”, quasi sempre rappresentanti di comunità islamiche, i “cattivi”, che condannano l’Islam senza distinzioni, e i “moderati” che condannano tutti gli estremismi, lasciando intatte tutte le premesse per il prossimo disastro. Purtroppo, i molti musulmani coraggiosi e aderenti al nostro tempo, sono perseguitati dall’ideologia Jihadista. Al tavolo di mio zio Guglielmo si sedettero tutti: fascisti, partigiani, tedeschi, ebrei, burocrati e analfabeti. Lì, le radici giudaico-cristiane erano le stesse, ma ogni giudizio sospeso. Sospendendo il giudizio, si abbattevano le separazioni e circolava l’umanità comune con diversi punti di vista che, paradossalmente,  potevano essere affrontati in modo critico-polemico anche con veemenza, ma senza offendersi. Tante altre famiglie italiane, in ogni regione, si prodigarono per il bene comune, gettando anche loro le basi per la carta costituzionale e per una pace durevole come mai prima. Ora noi ci troviamo certo in una situazione ancor più complessa, perché le radici europee sono le stesse, ma dobbiamo fare i conti non solo con gli egoismi di ogni singola nazione che nega di fatto un progetto comune, ma anche con un’identità “altra”, che ha una definizione sacerdotale. Le  riflessioni che vi propongo so che trattano di un tema davvero intricato, ma, per i presupposti che ho cercato di mettere sulla carta, non riesco a figurarmi un domani bello, se non con un viaggio dentro l’utopia.
Cordialità
Liviana Daolio

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Bravo Enzo Bianchi, la denuncia e' indispensabile se si vuole migliorare!
Anche se oggi Pasqua giorno di gioia, chi sbaglia deve vergognarsi sempre!
Congratulazioni a radio3... l'unica!
Luigi Papaleo
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Ho  appena ascoltato Enzo Bianchi. Frequento la comunità di bose dal 1972 e mai avevo sentito tanto esplicitamente l'indignazione e il dolore di Enzo per certi personaggi di chiesa. Voglio dire che questi sentimenti sono anche i nostri che pur essendo peccatori e non essendo dei santi mai arriveremmo a tanta corruzione a tanta doppiezza a tanta falsità. Non riusciamo neppure a capire come uomini e donne che si dicono credenti possano arrivare a tanto. Non è facile seguire il vangelo e certo noi non ci riusciamo, ma come si fa, per esempio,  da vescovi, da cardinali, avere ed utilizzare solo per se stessi tanti soldi !?!? Noi con i nostri normali stipendi aiutiamo diverse famiglie di immigrati, li abbiamo ospitati e non siamo santi. Vi ringrazio delle vostre trasmissioni ci fate sentire meno soli e ci aiutate a cercare di seguire il vangelo che parte di questa chiesa, come in un certo senso ha detto Enzo, sembra ignorare o peggio ancora rinnegare. Immagino ora come certi siti si scaglieranno contro Enzo e contro questo papa Francesco che è e continua ad essere un inaspettato e confortante dono.
Maria Grazia Lizzi
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Martedì scorso, 15 Marzo, aerei dell’Arabia Saudita hanno colpito il mercato di Mostaba, nello Yemen, il più importante nella regione di Hajja, uccidendo almeno 107 civili e causando decine di feriti,  in un’area lontana da obiettivi militari! Avete sentito qualcosa? Silenzio di tomba!
Ecco le riflessioni di don Renato Sacco presidente della Pax Christi.

«Cosa succede se scoprono che hai collaborato ad una strage? Niente!
Cosa succede se scoprono che hai  venduto armi a chi  ha preparato con calma e realizzato una strage, con 107 morti? Niente!
“Ma come.. niente?” abbiamo visto  a Bruxelles, a Parigi operazioni di polizia, blitz, sparatorie, ricerca dei criminali, intercettazioni, arresti perché appunto minacciavano attentati e stragi. A Bruxelles ieri hanno trovato dei Proiettili di un Kalashnikov e si parla di pericolosi terroristi. Credo giustamente. Non ho motivo per pensare il contrario. Ci sono le foto e gli idenkit su tutti i giornali e in Tv.
Ma allora, come mai per la strage di martedì scorso, nello Yemen, dove aerei dell’Arabia Saudita hanno colpito il mercato di Mostaba, il più importante nella regione di Hajja, uccidendo almeno 107 civili e causato decine di feriti,  in un’area lontana da obiettivi militari non sì è detto o scritto nulla, o quasi? Non c’è traccia sulle prime pagine dei giornali. Non si indaga, non si fanno intercettazioni per ricercare chi ha fornito le armi e chi ha collaborato alla strage.
Forse perché non servono le intercettazioni! Si sa chi ha fornito le armi: anche l'Italia!
Ma allora la strage di Parigi è diversa dalla strage al mercato di Mostaba? Forse sì! Abbiamo visto tanti Je suis... nei mesi scorsi con grandi titoli di giornali e dibattiti in Tv. Ma le stragi nello Yemen non fanno proprio notizia. Forse perché non ci sono morti ‘nostri’ o forse perché di ‘nostre’ ci sono le armi! Si sa, ma la cosa non turba. Lo abbiamo anche denunciato (http://www.paxchristi.it/?p=11445).
Lo spiega bene anche Giorgio Bernardelli sulla rivista Mondo e Missione: "A dirlo non sono solo i soliti pacifisti rompiscatole, ma gli stessi dati ufficiali dell’Istat che hanno certificato pochi giorni fa vendite di armi e munizioni dalla provincia di Cagliari all’Arabia Saudita per 10 milioni di euro nel solo IV trimestre del 2015. Quella commessa era fatta di bombe per aerei. Le stesse che oggi vanno a finire sui mercati dello Yemen. Possiamo rimanere indifferenti? E possiamo separare la memoria delle suore di Madre Teresa da tutto questo?". Ecco, appunto… c’è strage e strage. Ma qualcuno ci deve qualche spiegazione!».
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La trasmissione di oggi mi ha profondamente commossa. Da sempre la vita mi ha messo a contatto con questo tipo di fragilità: non persone della mia famiglia, ma ragazzi e ragazze, bambini e adulti che ho incontrato strada facendo e a cui, così, con irrinunciabile naturalezza, mi sono legata. Conosco dunque il grande dolore e la difficoltà delle famiglie, ma anche, in alcuni casi, la trasformazione che la presenza di questi figli e figlie speciali, hanno creato in chi sta loro vicino, poichè hanno saputo -potuto- guardare e ascoltare, seppure attraverso le lacrime. Quando questo accade (e questo è difficile, lo testimonio come maestra di scuola e come amica di madri), avvengono miracoli e le persone sbocciano come fiori in mille modi.

Perchè questo accade, quando accade? Non lo so. So soltanto che la vicinanza del mondo intorno (degli amici, dei parenti e, non ultimo, delle istituzioni) è fondamentale nel permettere l'accettazione e l'illuminazione che ne può nascere.
Mi ha colpito molto -perché l'ho riconosciuto- che Alessia sia stata descritta come una persona che non appartiene solo alla nostra dimensione terrena. Forse nessuno di noi appartiene solo a questa dimensione terrena, ma "loro" c'è lo mostrano con irresistibile evidenza. Quando ascolto Gorki, Emi o Hamady, quando sono stata vicina a Elvira e ad altri "extraterrestri" di questi tipo, ho sentito forte la sensazione di intelligenze siderali, profonde, particolari,  con le quali relazionarsi con rispetto e sguardo attento, per apprenderne la lingua e le logiche, perchè, sicuramente, da essi ho da imparare cose speciali, che mi proiettano in un altrove spesso negato dal vivere quotidiano. Mi ricordano che il tempo, in realtà, non è così importante e dominatore, che l'attimo è tutto e può tramutarsi in una esperienza piena di bellezza e intensità.
Grazie per ricordarcelo, attraverso queste narrazioni e le vostre parole.
Gloria Rossi
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Quando Paolo Ricca ha riferito la frase “è il nostro tesoro”, ho pensato: è un sentimento che ho avuto la fortuna di provare anch’io per mia madre ultracentenaria. Le avevo voluto bene come è normale che si voglia bene alla mamma, ma, nei suoi ultimi tempi, quando era impedita nei movimenti e nell’eloquio, era diventata un’altra persona, preziosa ed amabile in modo diverso.
Anna Paschetto
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Nell'ascoltare le storie di vita di Alessia e di Chiara mi domando se ci illumina ancora un lontano pensiero di Leibniz. Perché, con la stessa parola, il "male", definiamo sia il male fisico (la sofferenza)  che quello morale (il peccato), sia il male che subiamo che quello che infliggiamo, sia il male metafisico, strutturale, di cui sono impregnate la natura e la storia? Ci aiuta di più tenere distinta la "fragilità" di Alessia e di Chiara, un'esperienza di dolore innocente che a Gabriella Caramore, per come è raccontata da Paolo Ricca e Paolo Ghezzi, appare quasi una risorsa che ci rende più forti? Anche se l'origine rimane un mistero impenetrabile, l'interrogarci suscita energie umane di resistenza che si trasmettono a piccole onde anche a chi ascolta e legge. Dalla fragilità impotente di Gesù che muore, ricorda Paolo Ricca, i cristiani traggono addirittura la fede nella risurrezione. Nel male immenso che copre il mondo, è incrinata anch'essa dalla domanda: e se fosse un'illusione? La fiducia che emerge dalle parole delle tre persone che dialogano a "Uomini e profeti" è però una realtà.
Silvano Bert
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Gentile redazione,
ho seguito la  vostra  trasmissione dedicata al libro di Roberto della Rocca che ho letto l'anno scorso, appena uscito. 
E' uno di quei libri che ho sempre nella mia cartella, offre notevoli spunti non solo esegetici. E' un libro per erranti dello spirito... 
Un caro saluto 
Roberto 
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Sulla fedeltà

Gentile Uomini & Profeti,
vorrei condividere con Voi alcune riflessioni su temi d’attualità come la fedeltà, obbligo per le coppie eterosessuali che si uniscono nel matrimonio tradizionale e facoltativa per le unioni omosessuali. Se la parola “obbligo” contiene un’indicazione coercitiva, la “non necessità” suona offensiva perché sottende che tra persone dello stesso sesso questo legame non abbia lo stesso valore per prevederne l’esercizio, forse anche la sottile allusione che questo dipenda dalla vita “disordinata” che si attribuisce agli omosessuali. Pure, la fedeltà è spesso disattesa anche nelle coppie consacrate, addirittura in luoghi organizzati per tradirsi più o meno “consensualmente”, dove ci si scambiano mogli e mariti per noia, saturazione, vizio. Toglierei la parola obbligo che cambierei con dono: il “dono della fedeltà” per coppie sia etero che omosessuali. Secondo il mio pensiero, la fedeltà è un appuntamento con se stessi. Questa, è auspicabile, contiene l’incontro con l’altro; pure, se nel tempo e nel luogo convenuti l’altro non si presenta, ci siamo noi. L’atto di fede si estende dunque e soprattutto all’assenza, quando rimaniamo vulnerabili, senza consolazioni nel vuoto di risposte, fidando nelle “informazioni” che ci giungono spesso in modi imprevisti dalla vita generosa, se sappiamo aspettare e ascoltare. Accade nel gesto creativo senza riconoscimenti, nello spogliarci di fronte all’amore, nella malattia imprevista, nel concepimento di un bambino, ma soprattutto nel rinunciare a ciò che non possiamo avere per fare con ciò che abbiamo. E qui ritorno al concetto del limite (di cui scrissi in una precedente mail) che ci consente, tra l’altro, d’indirizzare la nostra potenza, e che presume dunque e solo paradossalmente, la libertà. Libertà che contiene l’atto di fede. La fedeltà a noi stessi, anche di fronte all’appuntamento mancato dell’altro, si nutre di tante piccole gentilezze quotidiane che vanno a formare pian piano un nucleo di bene interiore, un “filo di destino” percepito e portatore di un qualche senso nel viaggio breve e misterioso della nostra esistenza.

Grazie per il Vostro impegno.
Liviana Daolio

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