Juraj Valčuha: Čajkovskij, Sinfonia n. 5 in mi minore

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Juraj Valčuha direttore

     

    Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893)
    Sinfonia n. 5 in mi minore op. 64
    Andante - Allegro con anima
    Andante cantabile, con alcuna licenza - Allegro non troppo
    Valse. Allegro moderato
    Finale. Andante maestoso. Moderato assai e molto maestoso – Presto

     

    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale 1888

    La Quinta sinfonia fu scritta da Čajkovskij nell’estate del 1888, in un periodo abbastanza sereno della sua vita: la sua fama di compositore era ormai salda, e anche come direttore d’orchestra iniziava a riscuotere successi fuori dai confini della Russia. Proprio nell’inverno tra il 1887 e il 1888, prima di iniziare a lavorare alla Quinta sinfonia, compi la sua prima tournée in Europa, durante la quale conobbe Grieg e Brahms e diresse le sue opere a Berlino, Parigi, Londra e Praga. Anche la sua condizione economica era tranquilla: oltre all’assegno elargito annualmente dalla sua protettrice Nadežda von Meck, poté contare su un vitalizio assegnatogli dallo zar. La sua nuova abitazione di campagna, a Frolovkoe, nei pressi di Klin, gli era molto congeniale: situata su una collina, godeva di un bel panorama, era ben arredata, e confinava con un bosco nel quale Čajkovskij faceva lunghe passeggiate.

    Nella calma insolita di questa situazione si risvegliarono poco a poco tormenti e nevrosi: Čajkovskij iniziò a rimproverarsi per la mancanza di un progetto artistico preciso, per l’assenza di ispirazione. Iniziò a pensare di essere finito, di aver forzato troppo la fantasia e di aver esaurito la fonte della sua arte. La verità è che Čajkovskij non era in grado di vivere senza lavorare: durante i periodi di intensa attività desiderava spesso il piacere del riposo, ma poi non era in grado di sostenerlo. L’ozio gli arrecava tristezza, depressione, paura per il futuro, rimpianti per un passato che non poteva tornare. L’unica possibilità per sopportare l’esistenza era il lavoro. Cosi nel 1888, in una fase di apparente benessere, Čajkovskij pensò a una nuova sinfonia, più che per una reale esigenza espressiva, per dimostrare che come compositore non era ancora finito, e per scacciare i fantasmi che tormentavano la sua psiche instabile.

    A maggio iniziò a lavorare alla Quinta sinfonia; il 29 giugno l’opera era interamente abbozzata e a fine agosto anche l’orchestrazione era ultimata. Il 17 novembre Čajkovskij ne diresse la prima esecuzione a San Pietroburgo; l’accoglienza da parte del pubblico fu buona e la Quinta fu presentata a Praga, Amburgo e Londra, nel corso di una nuova tournée.

     

    La Quinta sinfonia

    La sinfonia si apre con un tema che ritornerà in tutti i movimenti seguenti come un motto unificatore, garante dell’unità del lavoro. In un appunto scritto da Čajkovskij nel periodo della stesura della Quinta, viene definito il significato di questa idea musicale, che esprime ≪la totale sottomissione davanti al Fato - oppure, il che è lo stesso, agli imperscrutabili disegni della Provvidenza≫. Il destino che Čajkovskij sente come avverso non è qualcosa che gli si oppone dall’esterno, ma al contrario è uno stato interiore, una debolezza soggettiva: è l’impossibilità di reggere il peso dell’esistenza. La sinfonia dunque si dichiara fin dall’inizio come il prodotto di un’introspezione del soggetto che l’ha creata, della sua psiche sofferente e rinunciataria.

    In realtà l’opera nella sua globalità non esprime infelicità o disperazione, anzi si possono rintracciare in essa tratti di autentica euforia, ma il senso di disfatta dell’apertura non può essere dimenticato e proietta la sua ombra anche sui momenti più positivi e luminosi della sinfonia. Il risultato espressivo è piuttosto complesso e ambiguo: la felicità esiste, ma è momentanea, e nel momento in cui la si conosce, se ne scorge anche la precarietà. In questo senso la sinfonia riflette davvero lo spirito di Čajkovskij, ipersensibile e disposto in ogni momento della sua esistenza a essere stravolto da circostanze esteriori o interiori, infinitamente più forti di lui e assolutamente impossibili da controllare.

     

    L’autocritica e la critica

    Čajkovskij non fu pienamente soddisfatto della sua Quinta sinfonia; così ne scriveva alla sua mecenate Nadežda von Meck: Ogni volta mi convinco sempre di più che la mia ultima sinfonia sia un’opera infelice e questa consapevolezza di un possibile insuccesso (e forse di un declino delle mie capacità) mi amareggia molto. La sinfonia è riuscita troppo eterogenea, massiccia, insincera e prolissa, in generale molto sgradevole. […] Davvero, come si dice, mi sono esaurito? Davvero ha già avuto inizio le commencement de la fin? Se è così è terribile.
    Il futuro mostrerà se le mie paure sono errate o no […]. (in Alexandra Orlava, Čajkovskij. Un autoritratto, Torino, Edt 1993, p. 351)

    Nel futuro immediato c’erano il balletto La bella addormentata (1888-1889) e l’opera La dama di picche (1890); Čajkovskij venne dunque smentito. La stessa Quinta sinfonia, si è detto, fu ben accolta dal pubblico. Qualche perplessità venne avanzata sul finale: Brahms, che era sicuro estimatore dei movimenti precedenti, lo giudicò inadeguato, eccessivamente affermativo, incongruente con il resto dell’opera. Oggi, pur nella consapevolezza dei suoi eccessi di vitalismo e trionfalismo, si tende a considerare questa conclusione come un tentativo estremo dell’uomo di aprirsi al mondo, alla vita, forse troppo fortemente voluto, sicuramente destinato allo scacco.

    PAOLO CAIROLI
    (dagli archivi Rai)

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