VITE E FATTI MEMORABILI (ALMENO PER ORA)

Sean Connery in smoking e papillon.

Il mio nome (non) è Bond, James Bond

di Guido Barlozzetti

 

La vita è curiosa e vista dalla fine non rende conto delle possibilità che via via vi si sono aperte e... chiuse. Adesso che Sean Connery ci ha lasciato, a novant'anni, viene voglia di tornare indietro e vedere come diventò per tutti uno di quegli attori, assai pochi, a cui capita di oltrepassare (quasi) subito la soglia del mito e di trascorrere in quest'Olimpo dell'immaginario una carriera lunghissima.

Sta lì forse il segreto di una sorprendente longevità e di un fascino che si è poi riversato su storie e personaggi inseparabili da chi li interpretava. Quello scozzese dallo sguardo fulminante aveva fatto un sacco di mestieri, body guard, fattorino del latte, muratore, bagnino, persino il verniciatore di bare, e questa stagione a contatto con la ruvidezza e la precarietà proletaria lo aveva certamente temprato.
Poi - il fisico evidentemente deponeva a suo favore - si era presentato per la patria natia al concorso di Mister Universo e dovevano aver apprezzato se si era classificato terzo.

Aveva apprezzato soprattutto il regista Herbert Wilcox che lo fa debuttare in un musical con un Errol Flynn ormai al tramonto e Anna Neagle, Le armi del re.
E' il 1954 e quel primo passo non costituisce un'entrata trionfale, perché bisogna aspettare un film Disney, Darby O' Gill e il re dei folletti, perché Sean figuri da protagonista, ma non tale da lasciare una traccia significativa. Seguono ruoli di ladro e malvivente e un passaggio nel Il giorno più lungo, dove si perde nella compagnia di divi tutti al maschile che racconta dello sbarco in Normandia, fino a quando incrocia l'occasione della vita, quella che capita una volta.

Due produttori con il fiuto lungo, Harry Saltzman e Albert Broccoli, avevano i diritti dei romanzi di Ian Fleming su un agente segreto spigliato e affascinante che si chiamava James Bond e, dopo aver escluso le candidature di Cary Grant, ormai avanti negli anni, Roger Moore e Richard Johnson, puntarono su quello scozzese con la faccia da impudente navigato, a suo agio con alcol e donne.
Così Sean Connery entrò nel personaggio con cui sarebbe assurto al mito.

007 si impose subito e lui, smoking, pistola, Aston Martin, camere da letto, ne girò cinque di fila tra il 1962/67 - Licenza di uccidere, Dalla Russia con amore, Missione Goldfinger, Thunderball e Si vive solo due volte - con registi come Terence Young, Guy Hamilton Irvin Kershner e Lewis Gilbert - perfettamente dentro al ruolo e via via, però, con una sfasatura crescente. La paura di aderire talmente a quel simulacro perfetto da farsene risucchiare e non riuscire più a liberarsene, paradosso del successo che nel momento in cui viene raggiunto si rivela una trappola che può diventare soffocante e chiudere in una ripetizione senza sbocchi.

Ebbene, è stato a questo punto che Connery è diventato se stesso e ha avuto la forza e il coraggio di separarsi da quel doppio totalizzante per cominciare una carriera illuminata, certo, da quell'avvio strepitoso, ma disponibile a mettersi in gioco e a provarsi indipendentemente da una rassicurante rendita di posizione.

D'altronde, se si scorre la filmografia, la porta l'aveva lasciata sempre aperta, perché tra un Bond e l'altro, aveva girato Marnie di Alfred Hitchcock, un vedovo con casa editrice che s'innamora dell'algida e traumatizzata (anche dal regista) Tippi Hedren; La collina del disonore, ribelle detenuto in un campo di prigionia inglese, diretto da Sidney Lumet con cui stabilì un sodalizio fruttuoso (Rapina record a New York, Riflessi in uno specchio scuro e Assassinio sull'Orient Express) e Una splendida canaglia di Kershner, poeta rissoso e seduttore.

Connery a quel punto procede in campo aperto e i titoli che si susseguono dicono di un intuito che presiede alle sue scelte e fa sì che personaggi memorabili diventino tali perché è lui a interpretarli, in una diveniente simbiosi in cui il pubblico non smette di identificarsi con lui e, al tempo stesso, di condividerne l'ultimo simulacro, raramente deludente.

Così, si presenta con Zed, l'uomo della consapevolezza nella condizione post-apocalittica di Zardoz di John Boorman (1974) e, poi, tocca forse un altro apice, se proprio lo volessimo individuare, con due film variamente esotici e due personaggi indimenticabili per l'energia irresistibile che spandono intorno. El Raisuri, il capo berbero che ne Il vento e il leone di John Milius (1975) si fa beffe di tutti ed esprime la potenza perfino guascona della libertà, e il masnadiero alla conquista del regno himalayano del Kafiristan in coppia con il suo pari Michael Caine ne L'uomo che volle farsi re di John Huston (1975).

In ogni caso, il percorso non si ferma perché Connery continua ed alimentare l'album: Robin Hood in Robin e Marian di Mark Lester (1976), il commissario federale giustiziere su un satellite di Giove in Atmosfera Zero di Peter Hyams (1981), l'epico Agamennone sotto la cui paradossale corazza si nasconde James Bond nel fantasy onirico I banditi del tempo di Terrry Gilliam (1981), e poi un Immortale che insegna i suoi segreti a Christopher Lambert in Highlander di Russell Mulcahy (1986)…

E' una spirale ininterrotta di successi che spaziano dal consumato francescano Baskerville de Il nome della rosa di Jean Jacques Annaud (1986), al capo dei federali contro Al Capone ne Gli intoccabili di Brian De Palma (1989), che gli vale l'Oscar, al complice padre di Indiana Jones ne L'ultima crociata di Steven Spielberg fino al comandate Ramius fedifrago e libero nel sommergibilistico Caccia a Ottobre rosso di John McTiernan (1990).

Connery è cresciuto, fa parti da terza generazione, impersona l'esperienza e il sapere pratico e, se serve, teorico, per salvarsi quando si è in un angolo del ring della vita e della storia, sempre con la dose terapeutica di un humour che non gli fa perdere mai l'aplomb, anche se il tempo delle conquiste è lontano e i feromoni si sono placati.

Nel frattempo, ha trovato il modo di rimettersi per due volte i panni dell'agente segreto che lo ha battezzato senza imporgli il suo nome, in Una cascata di diamanti di Guy Hamilton (1971) e in Mai dire mai di Kershner (1983).

L'ultimo film è del 2003, La leggenda degli uomini straordinari di Stephen Norrington. Nulla di memorabile, un topos che Sean ha frequentato spesso, il mondo minacciato da un'entità malvagia. Stavolta il Dr. No o il capo della Spectre è il Fantasma, efferato e sanguinario, contro il quale scende in campo una compagnia composita e attrezzata, il Capitano Nemo, Tom Sawyer, il Dr. Jekyll e, lui, Allan Quatermain, che pensava di riposarsi in Africa e invece viene richiamato in servizio attivo.

La sua morte commuove ovunque. Se ne va un antidoto alla normalità e una di fuga rispetto al tran tran fatta di sex-appeal, mascolinità nicotinosa, un sopracciglio ironico e, con l'età, di esperienza e sicurezza. Capace lassù, di fare un bel giro in Aston Martin con il kilt del clan, un accendino per l'occasione e, nel cruscotto, una pistola. Perché mai dire mai…

 

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